I cittadini di Beirut sono sicuri che ci sia una terza di fonte di fuoco: le navi israeliane. Molti di loro hanno dichiarato di esserne sicuri in particolare dopo i colpi che hanno centrato un palazzo nel centro della capitale libanese, a Bashoura, colpendo un centro sanitario di Hezbollah. La mancanza di una conferma militare israeliana non nega la loro supposizione.
Lo scenario va tenuto presente per gli sviluppi nel sud del Paese, dove sono in corso incursioni di terra. Ex generali in pensione, intervistati dai quotidiani libanesi, convergono nel dire che l’invasione di terra, con i carri armati, comincerà quando si riterrà il terreno “preparato”, e comincerà da Ovest, cioè dalla valle della Beqaa, al confine con la Siria, dove essendoci villaggi cristiani, sunniti e drusi la resistenza armata sarà minore perché lì i miliziani di Hezbollah non ci sono. Loro così si troverebbero chiusi tra l’esercito israeliano da sud e da ovest, con il mare a est, dove potrebbero esserci navi da guerra.
Se questo è il quadro e se, come è probabile, non si prospetta un’annessione israeliana del Sud, inverosimile, quella che si prospetta è una guerra lunga, che potrebbe mettere a rischio l’abitabilità di quelle terre. Si può ritenere che non sia una guerra a tutto il paese, e non solo a Hezbollah?
Chi lo ha detto chiaramente è l’ex ministro libanese, accademico di chiara fama, cristiano mai tenero con Hezbollah, Tareq Mitri: “La finestra diplomatica è piccola e l’intransigenza e il trionfalismo israeliano dureranno. Ma esiste e, affinché si apra un po’ di più, c’è un lavoro che i libanesi devono fare. Sul piano interno, è il momento di mostrare solidarietà e fratellanza, a prescindere dalle nostre differenze politiche. Non è il momento del sarcasmo, né tanto meno dell’esultanza. Se vogliamo fare qualcosa, la preoccupazione di salvaguardare il nostro Paese deve trascendere qualsiasi risentimento reciproco. Questo significa capire che indebolire Hezbollah non sarà una vittoria per chi si oppone alle sue politiche. Per poter fare un serio lavoro diplomatico, è necessario che ci sia un consenso nazionale sul fatto che l’attuale guerra è una guerra contro il Libano, non solo contro Hezbollah”.
Dunque è nella ricerca della soluzione, diplomatica e urgente, che il Libano dovrebbe unirsi, dimostrandosi solidale, senza steccati confessionali al proprio interno. Ci sono un milione di profughi, di sfollati da Beirut sud e dal Libano del sud, soprattutto sciiti quindi, per le strade del paese. Un banco di prova enorme per un Paese economicamente fallito, in ginocchio da quattro anni. Perseguire questa “finestra diplomatica” richiedeva uno Stato. E’ quello che ha capito l’ex primo ministro, Fouad Siniora, il musulmano con il senso dello Stato.
Nel vuoto politico ereditato dall’arroganza di Hezbollah il Libano non ha un Presidente della Repubblica da due anni, il governo è in carica per il disbrigo degli affari correnti e basta, non ha autorità. Siniora dunque chiedeva di eleggere subito Presidente, insediare il nuovo governo e chiedere il cessate il fuoco alla comunità internazionale sulla base della piena attuazione della risoluzione 1701 che prevede il ritiro di tutti i miliziani libanesi a 30 chilometri dal confine con Israele. La mossa connessa è schierarvi l’esercito a presidio del non ingresso di altri. Su questo molto convergono, ma il Presidente non si elegge, la richiesta viene da autorità che non rappresentano il Paese, ma tribù, comunità. E così il Libano muore.
Il Presidente della Camera, Nabih Berri, non convoca i deputati che dovrebbero eleggere il Presidente, avanza proposte che non ha titolo alcuno per fare, e i cristiani tacciono, chiaramente divisi. E anche così il Libano muore.
Colpisce allora leggere che che alcuni sciiti del sud del Libano hanno trovato rifugio nel lontano Iraq, altri hanno cercato riparo nella disperata Siria, dove dormono in tende. Il Libano si sta sciogliendo e lo Stato non c’è. I palestinesi vagano da un loro campo profughi all’altro, fuggono da quelli del sud verso quelli del nord del Paese: ma anche quelli ora sono colpiti. Tutto questo si può giustificare per le tremende condizioni di collasso economico del paese: ma lo Stato c’è, regola, tenta di dare un ordine, distribuisce gli aiuti, ne chiede, o ognuno si sente abbandonato a se stesso?
In questo modo il rischio è che i settori di Libano non colpiti dal fuoco si chiudano ai connazionali in fuga: sarebbe la cantonalizzazione del Paese, un disastro epocale. I cristiani in particolare potrebbero essere attirati dal desiderio di rinserrarsi sul loro Monte Libano. Una vecchia tendenza al suicidio.
La risposta invocata da Mitri e Siniora è una risposta esistenziale per il Libano e tutti i libanesi, per la sopravvivenza del Paese.L’unico stato multiconfessionale, dove tra mille carenze si è cercato di superare tribalismo e settarismo, è un modello per tutta la regione. Se cade l’unità libanese altre precarie unità statali sarebbero a rischio.
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