di Alessia de Antoniis
Diceva Moretti: D’Alema, dì qualcosa di sinistra. Non lo fece D’Alema né chi venne dopo, ma lo fa Samuele Rossi con Prima della fine. Gli ultimi giorni di Enrico Berlinguer, in esclusiva il 5 settembre alle 21:15 su Sky Documentaries, venerdì 6 alle 21:15 su Sky Arte e in streaming su Now.
Prima della fine. Gli ultimi giorni di Enrico Berlinguer – diretto da Samuele Rossi e prodotto da Echivisivi con Salice Production e Solaria – è la storia degli ultimi giorni di vita dell’uomo che riuscì a portare il PCI a livelli di consenso elettorale mai ipotizzati neanche con Gramsci e Togliatti. Un documentario che non racconta tutto Berlinguer, non solleva veli su tante ombre del segretario del Pci più amato dalla gente – quasi due milioni di persone parteciparono al funerale il 13 giugno 1984 – ma che non ha neanche questa intenzione. Nessun Berlinguer segreto. Anzi, solo filmati pubblici recuperati negli archivi in tre anni di ricerche. E un senso di popolo e di Stato oggi dimenticati, racchiusi nel volto del Presidente Pertini appoggiato alla bara.
Il film – racconta Samuele Rossi – affonda le sue radici nella mia storia. In quel senso di comunità, di affetti, di ricordi, di sentimenti, che ho vissuto crescendo accanto a mio nonno comunista militante: un semplice volontario che andava al circolo, distribuiva volantini, costruiva il palco della festa dell’Unità come semplice operaio. In un piccolo quartiere nella campagna pisana dove io vedevo uomini e donne che immaginavano un mondo dove si potesse stare insieme e creare una società fatta di sentimenti semplici, dove accogliersi, parlarsi, rispettarsi. È in quell’humus, in quello scambio di valori, di sentimenti che sono cresciuto. Come uomo e come cittadino.
Quando il mio lavoro è diventato raccontare il mondo, era ovvio che prima o poi avrei raccontato anche quell’idea di comunità, di fare politica, di immaginare il futuro; quel partito comunista che poi è diventato altro, ma che aveva provato a costruire una società migliore. Credo che questo dovrebbe essere il centro della politica; e quella era l’anima del Partito Comunista, ciò che ispirava Enrico Berlinguer nella sua guida.
Fare un film su di lui mi è sembrato necessario in un momento in cui fare politica è diventato tante cose diverse, spesso incomprensibili; un modo per parlare di una società migliore, di una visione diversa del futuro, cosa che a volte sembra qualcosa di strano.
A differenza di tuoi precedenti documentari, come Margherita. La voce delle stelle su Margherita Hack, Indro. L’uomo che scriveva sull’acqua su Montanelli, qui ci sono solo materiali di archivio…
Non è un film su Berlinguer: se avessi voluto fare quel film lo avrei fatto in modo molto diverso. Qui c’è sì Berlinguer, ma c’è anche l’anima di una comunità che aveva idee chiare sulla propria l’identità e su come provare a costruire il Paese, anche in una dialettica molto complessa come è stata quella degli anni Settanta. Il documentario parla di un’Italia che non c’è più e dove la morte di Berlinguer è stato uno spartiacque. E quei sette giorni che vanno dal malore di Berlinguer ai funerali in Piazza San Giovanni, mi sembra che lo raccontino perfettamente.
La morte di Berlinguer era la morte di un partito, la fine di una visione politica, la fine di una comunità. Berlinguer era per tutti il compagno Berlinguer, un uomo che stava in mezzo alla gente.
Quando vado in giro trovo ancora quella comunità, che ha perso la propria casa ma che ancora esiste, è viva e che è in cerca di una casa. Questo è ciò che mi sembrava importante raccontare a 40 anni dalla morte di Berlinguer. In un Paese sfilacciato, che parla poco di se stesso e della propria storia; che ha perso contatto con la propria memoria e le proprie radici. Raccontare oggi quei sette giorni, mi sembrava un gesto non solo cinematografico e artistico, ma anche un gesto civile e politico.
Abbiamo esplorato archivi di associazioni, fondazioni, privati e pubblici, per restituire non soltanto il ritratto di un uomo, di un leader, ma il ritratto di un popolo, di una comunità, di un Paese che non c’è più.
Emerge un Berlinguer moderno, attuale…
Un tema centrale è la visione di Berlinguer, concentrata in pochi discorsi pubblici. Le parole di un leader politico che ha provato a costruire un’idea di futuro, anticipando tematiche che, o sono cicliche, e quindi ritornano, oppure testimoniano una visione lungimirante: dall’austerità, all’ambiente, alla sostenibilità.
O forse non sono stati risolti, come la sua analisi del mondo femminile…
È un tema attuale in un partito che, al di là di quello che si racconta, era chiuso alle donne. E Berlinguer lo dice.
A Draghi, che nel 2021 chiedeva ai partiti i loro candidati per formare il Governo, il PD non ha segnalato alcuna donna. Eppure la prima presidentessa della Camera fu la Iotti…
Questo è un problema che, al di là del racconto di facciata, già il Pci aveva al suo interno. Era un partito che, a livello di dibattito affermava una linea, ma nella pratica quotidiana, paradossalmente, era meno inclusivo della DC. Il Pci aveva problemi nel rapporto con il femminile nei ruoli di comando. E Berlinguer va a toccare in modo diretto quell’aspetto: dice al partito qualcosa di estremamente attuale ancora oggi.
Cosa rappresenta per te questo film?
La libertà di poter dire quelle cose, in quel modo, all’interno del contesto attuale. Per questo è costruito in modo diverso dai miei precedenti documentari, che sono sempre stati degli ibridi tra il documentario e la finzione. Penso a Montanelli, con Roberto Herlitzka, o Carmelo Bene con Filippo Timi.
Con Berlinguer ho fatto un ragionamento opposto: ho fatto crescere la ricostruzione storica attraverso il repertorio, che era presente nei precedenti film, ma non in modo esclusivo. Volevo un’immersione totale dello spettatore nella memoria, da rivivere senza le solite interviste che creano un filtro. L’idea era quella di usare i materiali di repertorio per costruire un impianto che seguisse le logiche del film, creando un approccio umano a quella vicenda, e riallacciare il rapporto con quella memoria storica attraverso le emozioni.
Pensi manchi il cinema militante, quello che in un linguaggio politicamente corretto oggi chiamiamo impegnato?
In qualche modo si deve tornare a fare un cinema militante, che abbia voglia di sporcarsi le mani, di scontrarsi con la realtà che viviamo. Siamo in un periodo dove il cinema italiano è un po’ patinato. In un’Italia come questa, mi sembra assurdo che il nostro cinema racconti pochissimo dei drammi infiniti che la nostra società vive quotidianamente. È un vuoto enorme a cui il cinema deve dare una risposta Anzi, il cinema non deve dare risposte perché non ha la verità assoluta, ma deve porre domande, interrogare lo spettatore, scontrarsi con il pubblico, indagare quello che accade lasciando dei punti interrogativi che facciano male. Secondo me questo manca nel nostro cinema. E, in quanto autore, ho sentito di voler costruire il mio film colmando quel bisogno, perché penso che sia questo ciò che i nostri tempi ci chiedono.
Nel documentario l’arrivo di Craxi, accolto in ospedale da un gelido silenzio. Ma anche quello di Almirante alla camera ardente: tra i due c’era rispetto, nonostante fossero agli antipodi. Negli anni di piombo si erano incontrati più volte per dialogare, consapevoli che uno aveva in pancia i NAR e l’altro le BR. Ma forse avevano un’idea di Stato che abbiamo perso. Morti gli attori della guerra civile e del dopoguerra, resta un’Italia che non ha fatto i conti con quel passato?
Berlinguer, ogni volta che parlava di quella pagina, diceva chiaramente che ci sono delle persone che non hanno mai voluto accettare questa democrazia, questo Stato, e che al tavolo della Costituzione non era seduto il Movimento Sociale, erede di quella non cultura politica che era il fascismo. E questa era una consapevolezza chiara in tutto il panorama politico.
Sono convinto che non fare un processo in Italia come è stato fatto in Germania, sia alla base di tutti i problemi politici attuali. Non puoi costruire una memoria se non dichiari chi è responsabile di cosa. Non puoi lasciare ai singoli l’elaborazione storica. Oggi paghiamo le conseguenze del non aver fatto quel processo. E questa è una grande colpa anche del Partito Comunista Italiano, visto che l’amnistia fu firmata da Togliatti quando era Ministro della Giustizia.
Il sogno che accarezzo, anche se sarebbe solo un gesto cinematografico, partendo dal materiale storico, e usando il linguaggio del documentario, è provare a fare quel processo: immaginare cosa sarebbe successo se in Italia ci fosse stato un processo reale.
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