di Piersante Sestini – già professore associato di malattie respiratorie all’Università di Siena
Si è svolta lo scorso 30 luglio la seconda prova del test di accesso al corso di Laurea in Medicina di quest’anno. Dopo grossi pasticci combinati lo scorso anno, quest’anno il ministero ha optato per un test cartaceo in presenza, ripetibile in due sessioni, a Maggio e a Luglio, con domande uguali per tutti ma diverse fra le due sessioni. Peccato che, pensando forse di evitare grane, ha scelto di utilizzare domande relativamente facili e prese da un pool reso pubblico in precedenza.
Sistema ottimo per un test in cui interessi che passino tutti coloro che superano uno standard minimo, come quello per la patente di guida, ma ovviamente inadatto a discriminare e a fare selezione dei candidati su cui invertire le limitate risorse formative. Sia come sia, il test si è tenuto regolarmente (con i soliti rumors di copiature di massa in un paio di casi, ma niente di concreto).
Per contendersi quasi 15.000 posti (di cui circa 2000 potenzialmente riservati a un sottogruppo dei candidati in base alle regole dell’anno precedente), hanno partecipato circa 55.000 candidati alla prima sessione 44.000 alla seconda. Non è dato sapere quanti abbiano partecipato a entrambe, quindi il numero totale può teoricamente variare da 55.000 a 99.000, probabilmente una via di mezzo, fra 60–70.000.
Quello che però colpisce è che i candidati che hanno effettuato il test nelle sedi delle regioni meridionali (indipendentemente da dove poi si vorrebbe frequentare, non c’era motivo di andare a fare il test in una sede lontana da casa, per cui può essere preso come un indice di residenza), in entrambe le sessioni erano il 46% dei partecipanti, mentre nelle stesse regioni vive solo circa il 35% dei diciottenni italiani. Riferiti al numero di residenti diciottenni, nella sessione di maggio i partecipanti delle regioni meridionali erano l’11%, contro il 7% di quelli del centro nord, una differenza di oltre il 50%.
Analogamente, a luglio erano il 10% contro il 6%. Ovviamente non tutti i partecipanti erano diciottenni, ma quello rimane il riferimento principale. Se si esprimono i dati in base ai diplomati di quest’anno (anche se, di nuovo, non erano necessariamente tutti neodiplomati), le differenze non cambiano molto: 12% contro 9% a maggio, 11% contro 8% a luglio. In pratica, i diplomati (e le diplomate) delle regioni del Sud sono attratti dagli studi medici assai più di quelli del resto d’Italia.
Il secondo dato interessante è che, mentre le rilevazioni dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (Invalsi), da anni indicano che la preparazione degli studenti delle scuole superiori meridionali è in media consistentemente inferiore a quelli del resto d’Italia, nel test di ammissione a medicina (che si basa proprio su materie del programma delle scuole superiori), questo non si verifica, anzi, nella sessione di maggio gli studenti meridionali hanno ottenuto rispetto agli altri punteggi mediamente maggiori di oltre un punto, su un massimo di 90.
Se guardiamo le prime 13000 posizioni, ci troviamo il 28% degli studenti meridionali contro 1l 24% del resto d’Italia. Nella sessione di luglio, con l’esperienza di maggio e con più tempo da dedicare alla preparazione del test (in maggio incombeva l’esame di maturità), tutti hanno nettamente migliorato i loro punteggi, che si sono molto appiattiti in alto (vedi la figura), ma i punteggi degli studenti meridionali sono restati impercettibilmente più elevati (mediamente di mezzo punto) e comunque non inferiori a quelli degli altri: nei primi 13.000 troviamo il 29.4% degli studenti meridionali e il 29% di quelli centrosettentrionali. Per stabilire chi davvero si troverà in posizione utile per accedere ai corsi e in quale sede, le due graduatorie andranno combinate mantenendo solo il punteggio maggiore fra le due prove, ma la probabilità di trovarsi in una posizione utile resterà certamente migliore fra gli studenti del meridione.
In pratica, i dati mostrano la presenza di una generazione di giovani che vede nel corso di medicina una possibilità di futuro. Nelle regioni meridionali, sia per la carenza di alternative, sia per desiderio di riscatto, questi sono di più e mediamente più determinati rispetto alle regioni centrosettentrionali, al punto di riuscire a superare (investendo evidentemente tempo, ingegno e in una parte dei casi probabilmente anche soldi nelle agenzie di formazione che forniscono il coaching e il mentoring che la scuola pubblica – al di là dell’impegno dei singoli docenti- non è in grado di offrire), il gap di formazione delle scuole superiori.
I dati non lo dicono, ma si tratta principalmente di giovani donne: almeno il 70% degli studenti di medicina sono femmine. Questo fa rientrare l’argomento non solo nella questione meridionale, ma anche in quella femminile (e ce ne sarebbe un’altra, quella socio-economica, da affrontare). Questa richiesta è destinata inevitabilmente a provocare risposte politiche, che in parte già si vedono. Può darsi che le proposte che tendono a dequalificare e impoverire ulteriormente la formazione e la professione medica, in cambio di una maggiore facilità di accesso al corso di laurea abbiano successo. O può darsi di no.
Distribuzione percentuale dei punteggi ottenuti al test di accesso per medicina nelle regioni centrosettentrionali e in quelle meridionali nelle due sessioni del 2024. L’area in cui i dati delle due zone sono sovrammessi è in viola. Le colonne blu indicano una maggiore frequenza di quel punteggio nelle regioni centrosettentrionali, quelle rosa nelle regioni meridionali. Si nota come, specie alla sessione di maggio, la frequenza di punteggi superiori a 60 tenda a risultare maggiore fra i concorrenti delle regioni meridionali. L’apparente anomalia della colonna dei 90 punti è dovuta alla scarsa discriminazione del test, per cui i dati dei candidati che con un test più selettivo si sarebbero distribuiti ulteriormente a destra, si accumulano forzatamente al valore massimo raggiungibile
Ne ho già scritto qui nel dicembre scorso, ma vale la pena ricordare alcuni punti che fanno fatica ad essere afferrati nel discorso sul tema. Il primo è che non si tratta di un test per decidere chi diventerà un pravo medico: per quello ci vorrebbe la sfera di cristallo. E’ un test per selezionare chi è più adatto ad affrontare il corso di laurea in medicina. E’ dalla qualità del corso che dipenderà quanto bravo (o brava, visto che si tratta per il 70% di donne) come medico. Il secondo punto è che pensare di formare i medici del domani coi metodi del secolo scorso è come pensare di curare le malattie con i metodi e gli strumenti di quando si usavano le siringhe di vetro da bollire. Il terzo, che selezionare le persone più capaci di affrontare il percorso formativo e poi garantirglielo è certamente più efficiente e utile per la comunità che non ammettere tutti e poi non offrire formazione a nessuno (dove per formazione, non si intendono lezioni in aule gremite o online, né dispense delle lezioni).
In ogni caso, quest’anno era ancora previsto un test di accesso, cui i giovani diplomati interessati si sono diligentemente sottoposti. Saprete forse dei pasticci combinati lo scorso anno, in cui il ministero aveva imposto un sistema di equalizzazione per confrontare i risultati di prove diverse (un’ottima cosa e neanche trascendentale, nell’ippica il sistema degli handicap è in uso da quasi due secoli), però congegnandolo in modo che chi riceveva in sorte domande più facili non dovesse fare meno errori per ottenere lo stesso punteggio di chi le aveva ricevute più difficili, ma che dovesse ottenere un punteggio inferiore tout-court, anche se rispondeva esattamente a tutte.
I poveri giudici amministrativi ci hanno messo un anno per metterci su una pezza che consentisse comunque lo svolgimento dei corsi.
L'articolo Accesso a medicina: una questione meridionale? proviene da Globalist.it.