Così è, se vi pare. La legge di Google è sempre stata abbastanza salda su questo principio. E vale un po’ per tutto. Per l’algoritmo con cui posiziona i risultati di ricerca, così come per le fonti che sceglie all’interno dell’ecosistema News. BigG alza muri che non lasciano intravedere al suo interno, che non ammettono intrusioni altrui. Fino a qualche anno fa, era così anche per il sistema di analisi dei dati. Tutti gli editori (almeno in Italia) non avevano scelta: c’era Google Analytics, era gratuito, era preciso, era anche abbastanza usabile e comprensibile anche dai non addetti ai lavori (quanti ne abbiamo visti, nel corso del tempo, di giornalisti che svolgevano anche la funzione di data analyst nelle redazioni?). Soprattutto, era considerato il metro di giudizio unico per valutare le performance dei siti e per parametrare, su queste, le revenues pubblicitarie. Ma oggi, con la dismissione di Universal Analytics legata alla sacrosanta battaglia per evitare che i dati degli utenti europei potessero essere trasferiti oltre Atlantico, ha ancora senso ritenere Google Analytics la Bibbia del mercato editoriale?
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GA4 – lo abbiamo visto anche nelle diverse testimonianze raccolte all’interno di questo monografico – e il suo impiego ormai esclusivo rispetto a Universal (con l’ultimo atto che si è consumato il 1° luglio 2024) comporta diversi problemi per gli editori. Innanzitutto per una questione di metriche: i parametri su cui si basa sono ormai diversi da quelli di Universal, il concetto di intervallo di tempo è diventato pervasivo, l’aggregazione aggiornata e corretta dei dati viene comunicata molto in avanti rispetto all’inizio della giornata. Pensate per un attimo a una redazione di un giornale all-news che voglia sapere come sia andata la giornata precedente per orientare gli approfondimenti del giorno: può permettersi di ricevere un aggiornamento completo alle due del pomeriggio, quando l’onda lunga delle notizie del giorno prima si è praticamente esaurita?
Ovviamente, questi dati non sono svaniti nel nulla. Sono diventati più difficilmente reperibili per gli utenti di GA4 che, spesso, devono basarsi su altri strumenti open source o su complessi calcoli matematici per avere una visione aggiornata e completa del proprio lavoro. Il tema dell’usabilità, infatti, è l’altra critica – abbastanza unanime – che viene mossa al nuovo prodotto di BigG.
In un quadro del genere, dunque, perché il mercato pubblicitario dovrebbe ostinarsi nell’indicare in Google il suo unico parametro di riferimento per misurare le performance dei contenuti editoriali? Non avrebbe senso cercare di dare impulso a una soluzione condivisa che possa aprire il mercato dell’analytics ad altri operatori, con un know-how specifico, che possano essere considerati almeno altrettanto attendibili di Google?
Le alternative al colosso di Mountain View iniziano a essere utilizzate anche in Italia (in molti, ad esempio, hanno citato Matomo), ma non basta. È necessario che le nuove piattaforme di analytics siano tarate sulle esigenze specifiche degli utenti (serviranno piattaforme analytics specifiche per gli e-commerce, ad esempio, così come sono necessarie piattaforme analytics che incontrino le esigenze degli editori e dei news-outlet). Ma è necessario – soprattutto – che il loro linguaggio sia ritenuto autorevole, che le loro funzionalità siano esaminate dagli operatori pubblicitari in base all’efficienza tecnica. Non basta più il marchio Google, se lo strumento che offre non incontra l’esigenza di chi lo utilizza e si dimostra, anzi, anacronistico rispetto alle esigenze. Occorre un cambio di mentalità e di prospettiva. La vera (e ultima) ancora di salvataggio per l’editoria online, attualmente in declino.
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