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Il Covid non è sconfitto ma non è più invincibile: ecco le armi di cui oggi disponiamo

Il Covid non è sconfitto ma non è più invincibile: ecco le armi di cui oggi disponiamo

I risultati dell’efficacia delle terapie contro il virus nel rapporto settimanale Università Cattolica-La Stampa sull’evoluzione della pandemia

ROMA. La lotta contro il Sars-Cov-2 è una partita a scacchi. Il virus non tiene un calendario e parlare già oggi della fine della pandemia e dell'inizio dell'endemia è azzardato, anche se alcuni segnali ci sono. La comparsa di Omicron è stata un fatto importante: questa cariante più contagiosa ma meno aggressiva ci ha permesso di non avere gli ospedali pieni come nel 2020. Soprattutto oggi abbiamo oltre il 90% dei vaccinabili che sono immunizzati, quindi, pur non avendo una protezione assoluta nei confronti dell'infezione, sono protetti dalla malattia grave. L'Italia ha raggiunto alcuni obiettivi che oggi ci permettono di allentare le restrizioni e si può prevedere che in tempi brevi si tornerà alla normalità.

Strategie terapeutiche
Il progressivo affinarsi delle conoscenze sulle caratteristiche cliniche della COVID-19 e sui suoi aspetti patogenetici ha permesso di identificare una strategia terapeutica che prevede l’impiego di una serie di farmaci a diversa attività. In particolare, sono stati impiegati nei pazienti COVID-19 i seguenti farmaci: quelli a potenziale attività antivirale contro SARS-CoV-2; quelli ad attività profilattica/terapeutica contro le manifestazioni trombotiche; quelli in grado di modulare la risposta immunitaria; infusioni di anticorpi monoclonali in grado di bloccare il legame del virus al suo recettore espresso sulle cellule umane (ACE2). E prima di queste, infusioni di plasma di convalescenti che contenevano anticorpi neutralizzanti. Le Agenzie regolatorie nazionali (AIFA) e internazionali (FDA, EMA) raccomandano, quando possibile, che l’impiego di questi farmaci venga attuato secondo le regole dei clinical trials al fine di definire in maniera conclusiva il loro ruolo nella COVID-19. Il decor- so dell’infezione si può considerare diviso in tre fasi.

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Le tre fasi
La fase iniziale, fase 1, si caratterizza per il legame di SARS-CoV-2 ad ACE2 e la penetrazione con replicazione del virus all’interno delle cellule dell’ospite. Questa fase ha come corrispettivo clinico la possibile presenza di sintomi quali febbre, tosse secca, astenia; nella maggioranza dei casi il sistema immunitario dell’ospite riesce a bloccare l’infezione e si ha un’evoluzione benigna della malattia. Le fasi 2 e 3 si caratterizzano per un aggravamento clinico caratterizzato da dispnea e altre manifestazioni legate alla polmonite, sino all’insufficienza respiratoria (acute distress respiratory syndome, ARDS), oltreché da un quadro di iperinfiammazione. Il malato critico (fase finale) presenta un’invasione generalizzata del virus con coinvolgimento e compromissione di molti organi (multiple organ failure, MOF).

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Terapie
Tra i farmaci attualmente considerati per il trattamento dei pazienti COVID-19 ci sono i corticosteroidi, dotati di un potente effetto antinfiammatorio, anche se il loro impiego in pazienti affetti da COVID-19, MERS, SARS è stato oggetto di iniziale incertezza, da un lato per la mancanza di studi controllati randomizzati che ne validassero l’impiego, dall’altro per il timore di una possibile loro azione pro-infettiva. L’attuale indicazione del desametasone e degli altri glucocorticoidi è per i pazienti gravi che ricevono ossigeno o che hanno un supporto ventilatorio. Al contrario questi farmaci non vanno somministrati né per la prevenzione né per il trattamento delle forme a lieve o moderata gravità. Questa indicazione è supportata da trial e da meta-analisi che hanno indicato una ridotta mortalità a 28 giorni nei pazienti che hanno ricevuto corticosteroidi rispetto a quanti avevano ricevuto o placebo o nulla. Un analogo beneficio non si è dimostrato nei pazienti che non richiedevano l’ossigeno terapia o il supporto ventilatorio. La maggioranza degli studi sono stati condotti con il desametasone, dal momento che idrocortisone e metilprednisolone sono stati impiegati in un minor numero di trial clinici a bassa numerosità che, in alcuni casi, non hanno indicato una chiara efficacia in termini di miglioramento della prognosi. I pazienti che ricevono glucocorticoidi devono essere attentamente monitorati per gli eventi avversi, quali iperglicemia e un aumentato rischio infettivo. Le linee guida di diversi organismi nazionali e internazionali (AIFA, OMS, NIH, IDSA), in maniera concorde, pur riconoscendo la validità e il beneficio dei corticosteroidi, non ne raccomandano l’impiego nei soggetti ospedalizzati con COVID-19 senza ipossiemia e, quindi, che non richiedono ossigenoterapia.

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Inibitori
Il baricitinib è un inibitore della janus chinasi (JAK) utilizzato per il trattamento dell’artrite reumatoide che, oltre agli effetti immunomodulatori, sarebbe dotato di un potenziale effetto antivirale che interferisce con l’entrata del virus. Viene suggerito l’uso di questa molecola in pazienti che richiedono alti flussi di ossigeno o una ventilazione non invasiva o in pazienti che ricevono bassi flussi di ossigeno ma ad alto rischio di progressione nonostante la terapia con desametasone. Non essendo noti gli effetti di un eventuale co-somministrazione con inibitori di IL-6 non si consiglia l’uso contemporaneo. Il farmaco è stato autorizzato sia da NIH COVID-19 Treatment Guidelines Panel sia da EMA in associazione con remdesivir. Recenti studi suggeriscono che il baricitinib può avere un effetto favorevole sulla mortalità in pazienti con malattia grave anche se già in trattamento steroideo. Questo effetto sulla mortalità è maggiore nei pazienti che erano sotto alti flussi di ossigeno o a ventilazione non invasiva rispetto a chi non era in ossigeno terapia o riceveva bassi flussi. Precedenti studi avevano indicato un effetto positivo del baricitinib in associazione al remdesivir nei pazienti sotto alti flussi di ossigeno o in ventilazione non invasiva. Il tofacitinib è un altro inibitore della janus chinasi (JAK) che può de- terminare dei benefici clinici, anche se i dati sono ancora piuttosto limitati e si riferiscono a un singolo studio di 289 pazienti che assumevano anche cortisonici. Gli effetti collaterali osservati sono stati modesti.

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Anticorpi monoclonali
Le terapie più moderne si indirizzano all’impiego di anticorpi monoclonali diretti nei confronti di epitopi virali importanti per l’instaurarsi dell’infezione da SARS-CoV-2. Studi condotti nell’animale utilizzando bamlanivimab avevano mostrato buoni risultati nel modello animale, ma quando è stato impiegato in pazienti COVID-19 ambulatoriali per ridurre il rischio di ospedalizzazione, esso non ha fornito risultati favore- voli univoci, tanto che il panel delle linee guida IDSA si è espresso contro l’impiego routinario del solo bamlanivimab nei pazienti ambulatoriali con COVID-19. Oltre al bamlanivimab sono stati introdotti altri anti- corpi monoclonali tutti diretti verso la spike, quali casirivimab e imdevi- mab. Questi anticorpi sono stati prodotti sulla base delle caratteristiche dello spike legate al virus circolante nel 2020 e per questo tutti in qualche modo presentano una riduzione più o meno marcata nei confronti delle nuove varianti del virus. Dagli studi finora condotti, sostanzialmente emerge che l’efficacia degli anticorpi monoclonali nel prevenire le forme gravi di malattie si verifica se vengono somministrati precocemente, e quindi in pazienti non ospedalizzati, usualmente entro 3-5 giorni dalla comparsa dei sintomi e se somministrati in associazione in modo da bloccare il virus in due diversi epitopi. Attualmente sono disponibili le associazioni bamlanivimab + etesevimab e carisivimab + imdevimab e sotrovimab. FDA in base all’attuale prevalente circolazione di Omicron ha sconsigliato l’uso di bamlanivimab, casirivimab e imdevimab, dal mo- mento che questi monoclonali non risultano essere efficaci nei confronti di questa variante che risponde al solo sotrovimab. AIFA ha autorizzato

l’impiego di queste associazioni in soggetti non ospedalizzati, specie se over 65 anni, non in ossigenoterapia, che, pur avendo una malattia lieve/ moderata, risultano ad alto rischio di sviluppare una malattia grave.

Mutazioni del recettore
Nell’ambito degli studi di virologia e diagnostica, si segnala la ricerca (Zhang Y. e altri) in cui vengono studiate 153 mutazioni del recettore della proteina spike (RBD), che si lega alle cellule dell’ospite e 11 varianti sia di “preoccupazione” (VOC) che di “interesse” (VOI), inclusa Omicron, per valutare come i cambiamenti antigenici si comportano nei confronti di cellule che esprimono il recettore ACE2. In particolare, si è osservato che le diverse mutazioni di RBD incrementano la capacità infettante da parte del virus in cellule che esprimono l’ACE2 in specie diverse dall’uomo, soprattutto quelle che sono meno suscettibili al ceppo virale ancestrale. Questo incremento del potere infettante del virus in animali, originariamente non suscettibili, potrebbe aumentare il bacino di animali che possono comportarsi da serbatoi, contribuendo così al salto di specie delle varianti dall’uomo all’animale e viceversa. Da questo studio, emerge la necessità di un attento sistema di sorveglianza sui diversi Coronavirus, specie per quanto attiene i cambiamenti genetici della proteina spike, al fine di prevenire o, se questo non è possibile, prevedere eventuali salti di specie.

Test diagnostici
Uno studio (Veyrenche N. e altri) ha valutato la capacità diagnostica di un test per la ricerca dell’antigene nucleoclapsidico di SARS-CoV-2 nelle urine e nel sangue, di 82 pazienti ospedalizzati con COVID-19 per stabilire la relazione con la gravità della malattia. Nella prima e seconda settimana dall’infezione, il test antigenico su urine è risultato positivo rispettivamente nell’ 81,2% e nel 71,7%, mentre sul sangue nel 93,7% e nel 94,8%. Livelli elevati di antigene urinario sono stati correlati con: l’assenza di anticorpi anti nucleocapside, il ricovero in terapia intensiva, gli elevati livelli di proteina C reattiva, la diminuzione dei linfociti e degli eosinofili e gli elevati livelli dell’enzima latticodeidrogenasi nel sangue. Per questo motivo la positività del test nelle urine è risultata piuttosto accurata nel predire la gravità della malattia, il che rende questa indagine di un certo interessante nella pratica clinica per la stratificazione prognostica dei pazienti.

Risposta immunitaria

Nell’ambito delle ricerche sui vaccini, si segnala uno studio longitudinale prospettico (Peng Q. e altri) condotto ad Hong Kong, in cui è stata comparata l’immunogenicità e la durata della risposta immunitaria di due vaccini, l’uno a mRNA (Pfizer) e l’altro a virus inattivato (Coronavac). E’ stata valutata nei soggetti vaccinati la capacità di produrre anticorpi neutralizzanti e la risposta dei linfociti T specifica allo spike. Nei pazienti sottoposti a vaccinazione Pfizer, la produzione di anticorpi neutralizzanti era del 100%, mentre in quelli con vaccinazione da CoronaVac era dell’87,5%. Inoltre, sia la produzione di anticorpi neutralizzanti che la reattività dei linfociti T risultano essere più bassi nei confronti delle varianti Delta e Omicron, specie nei vaccinati con CoronaVac. Infatti, a tre mesi dalla vaccinazione, i livelli di anticorpi neutralizzanti e la risposta delle cellule T in vaccinati con virus inattivato erano quasi non rilevabili. Sulla base di questo studio si conclude che un vaccino a virus inattivato sembra stimolare una risposta cellulare ed umorale inferiore rispetto ad un vaccino a mRNA, soprattutto nei confronti delle varianti Delta e Omicron.

Terza dose contro Omicron
L’efficacia della terza dose verso la variante Omicron (Abu-Rabbad L.J. e atri) è stata studiata nel Quatar tra il dicembre 2021 ed il gennaio 2022. Si sono valutate due coorti, una di soggetti che avevano ricevuto la terza dose da almeno una settimana e una di persone vaccinate con solo due dosi. Un totale di 1.299.010 soggetti avevano ricevuto nel lasso di tempo sopraindicato almeno due dosi di vaccino Pfizer e 281.093 di essi anche la dose di richiamo. In questo ultimo gruppo sono state osservate, nel periodo di studio, 17.745 infezioni, di cui 12 progredite verso la malattia grave, senza che si osservasse alcun decesso. Nel gruppo dei pazienti che aveva ricevuto due dosi, sono state riscontrate 25.266 infezioni, 45 progredite a COVID grave, 4 che hanno richiesto la terapia intensiva, anche in questo caso senza alcun decesso. A 35 giorni dalla somministrazione della terza dose, l’incidenza di infezioni sintomatiche è stata del 2,4% in chi aveva ricevuto il richiamo e del 4,5% in chi non l’aveva ricevuto. La riduzione dell’incidenza dell’infezione sintomatica da Omicron dopo la dose di richiamo è stata del 49,4% nei confronti della malattia grave e del 76,5% per la morte. I risultati dello studio hanno indicato che sia chi aveva ricevuto due dosi, sia chi aveva ricevuto anche la dose di richiamo, hanno una buona protezione nei confronti della malattia grave e nei confronti dell’ospedalizzazione, anche se l’efficacia della terza dose nella prevenzione della variante Omicron risulta essere non completa.

Reazione
Uno studio (Guimaraes De Sousa L. e altri) riporta la riduzione di metastasi polmonari in un paziente con carcinoma delle ghiandole salivari dopo la somministrazione di vaccino a mRNA anti SARS-CoV-2. Dopo la somministrazione del vaccino, il paziente ha mostrato una reazione infiammatoria sistemica che è stata documentata a livello della biopsia polmonare con la presenza di un importante infiltrato infiammatorio, il che suggerisce che il vaccino abbia stimolato in questo paziente una intensa reazione immunitaria. Questa osservazione, seppur limitata ad un solo paziente, è interessante e merita di essere ulteriormente approfondita. Nell’ambito degli studi di clinica, si segnala la ricerca (Kousathanas A. e altri) che confronta circa 7.500 genomi di casi gravi di infezione da SARS-CoV-2 con 48.00 controlli al fine di identificare i fattori genetici ed i meccanismi che potrebbero predisporre ad una infezione grave. Sono state identificate 16 nuove associazioni, in particolare per quel che riguarda i geni implicati nella trasmissione del segnale dell’interferone, nella differenziazione dei globuli bianchi e nella secrezione degli antigeni dei gruppi sanguigni. E’ stata inoltre segnalata una ridotta espressione di flippasi di membrana (cioè di proteine di transmembrana) ed una aumentata espressione di mucina associate a forme gravi di malattia. Identificare questi fattori di natura genetica potrebbe risultare utile per migliorare la strategia terapeutica.

Alterazioni cerebrali
In uno studio (Gwenaëlle D. e altri) sono state analizzate le alterazioni cerebrali di 785 pazienti di età tra 51 ed 81 anni sottoposti ad indagine di imaging cerebrale prima e durante la pandemia, di cui 401 avevano contratto l’infezione tra il primo ed il secondo esame. In particolare, chi aveva contratto l’infezione da SARS-CoV-2, presentava una riduzione dello spessore della corteccia cerebrale, specie in quelle regioni funzionalmente collegate alla corteccia olfattiva primaria dove era presente anche una maggiore atrofia cerebrale. In questi stessi soggetti si è documentato un maggiore declino neuro-cognitivo. Queste alterazione dell’imaging cerebrale testimoniano come alcuni soggetti affetti da COVID-19 presentano una diffusa degenerazione cerebrale specie nelle aree delle vie olfattive, alterazioni di cui tenere conto effettuando test a distanza per verificare se siano reversibili o meno. Una meta-analisi (Willis NK e altri) non ancora pubblicata, ma presente nelle piattaforme, ha considerato 5.873 pazienti con COVID-19 trattati con terapia anticoagulante a due dosaggi: l’uno profilattico e l’altro più elevato. Non si è osservato alcun beneficio in termini di mortalità a breve termine attuando una terapia anticoagulante a dosaggi più elevati, mentre si è osservato un aumento del rischio di sanguinamento. Per questo motivo non sembra utile aumentare il dosaggio della terapia anticoagulante, per il trattamento di COVID-19.

Attività in vitro
E’ stata valutata (Takashita E. e altri) l’attività in vitro dei farmaci antivirali e degli anticorpi monoclonali su Omicron 2. In particolare è stata confermata la capacità inibitoria nei confronti di questa sotto variante da parte di Remdesivir, Molnupiravir e Nirmatrelvir (Paxlovid), mentre per gli anticorpi monoclonali, si è osservata una attività variabile, con una ridotta capacità neutralizzante per alcuni di essi. Nell’ambito degli studi di epidemiologia, viene segnalato un report tecnico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sull’evoluzione del virus SARS-CoV-2, che si focalizza sui sotto lignaggi della variante Omicron, vale a dire BA.1 e BA.2, che sono in questo momento sotto stretto monitoraggio. Attualmente BA.2 è diventata la variante prevalente in molte aree geografiche sorpassando BA.1, in quanto è più trasmissibile, anche se la differenza tra queste due sottovarianti non è così marcata come tra Omicron e Delta. Anche se sono stati segnalati casi di reinfezione da BA.2 dopo BA.1, si ritiene che a livello di popolazione, l’infezione da BA.1 fornisca una importante protezione anche nei confronti di BA.2. Nonostante ci siano stati studi preliminari condotti in modelli animali non immuni verso SARS-CoV-2 che hanno evidenziato che BA.2 causa una malattia più grave che BA.1, i dati che provengono dalla vita reale (Sud Africa, Regno Unito e Danimarca) indicano chiaramente che non sussiste alcuna differenza di gravità tra BA.2 e BA.1 nei contesti di popolazione in cui l’immunità da vaccinazione o da infezione naturale sia elevata.

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