MIRANDOLA. Con “L’uomo dal fiore in bocca” da Luigi Pirandello prosegue domani alle 21 la stagione di teatro all’Auditorium Rita Levi Montalcini di Mirandola curata da Ater in collaborazione con l’amministrazione comunale (info e prevendite: mirandola@ater.emr.it).
In scena Lucrezia Lante della Rovere, una delle più brave e poliedriche attrici italiane, affronta un ruolo su misura per lei, ispirato al celebre dramma (prima novella e poi atto unico) dello scrittore e drammaturgo siciliano.
Prodotto da Argot produzioni in collaborazione con Infinito produzioni, firma l’innovativa regia Francesco Zecca che nelle sue note sintetizza: “Abbiamo dato voce a quella donna muta e dolorante, quella donna vestita di nero che Pirandello ci ha fatto intravedere solo dietro a quel cantone”.
«Sono sempre molto felice di ritornare nel Modenese - afferma l'attrice romana- sia per il calore con cui mi accoglie il pubblico, sia per i tortellini, il gnocco fritto e il lambrusco, a cui è davvero impossibile rinunciare (ride)».
Che cosa colpisce l’attrice di questo riadattamento che fa uscire dall’oscurità il punto di vista di quel personaggio femminile che fino ad ora abbiamo sempre percepito come un'ombra che osservava i due interlocutori maschili?
« In primo luogo ciò che incanta è che nonostante le parole di Pirandello siano rimaste tali, grazie all’intuizione meravigliosa del regista Francesco Zecca, le stesse, messe in bocca alla moglie del protagonista, ne ribaltano la visione. Quello che ne esce è allora davvero sorprendente: se nella versione “originale” de “L’uomo dal fiore in bocca” quella donna vestita di nero è qualcosa di estremamente didascalico, nello spettacolo che portiamo in scena diventa la vera protagonista grazie ad un ribaltamento del punto di vista. È incredibile come lo stesso testo cambi radicalmente e sveli con potenza i sentimenti e il rammarico della donna che nella versione che abbiamo sempre visto rappresentata rimanevano celati».
Cosa emerge allora di nuovo nel dramma?
«Sicuramente il dolore di questa donna, che non si dà pace e si chiede perché suo marito abbia preferito condividere il suo dolore e la sua morte con l’avventore piuttosto che con lei. La donna sulla tomba del marito immagina il mondo in maniera ossessiva e così ci parla di lui, cercando di dare una risposta al suo lutto. Il suo mantra diventa allora cercare di immaginare la vita mentre parla del marito fino a toccare il fondo e ad arrivare alla morte. Ma la vita è ingorda, non ti lascia che i resti da assaporare, del resto ci sono ricordi il cui gusto rimane tutta la vita e non c'è spazio per altro. Solo per l’immaginazione. E a Lei, la donna vestita di nero, la moglie dell’Uomo dal fiore in bocca è l’unica cosa che è rimasta: “attaccarsi con l’immaginazione alla vita”».
C'è stato anche un riadattamento temporale del dramma?
«Proprio così. Nella nostra rappresentazione l'opera si apre quando l’uomo dal fiore in bocca è già morto e quindi sulla scena non c’è nemmeno l'avventore. L'unica presenza è la donna dall’abito nero sulla tomba del marito che intreccia fili d'erba, per confezionarsi simbolicamente la sua bara».
Cosa la affascina di più di questo riadattamento innovativo?
«Certamente lo sguardo empatico che insieme, io e il regista siamo riusciti a dare al dramma cambiandone il punto di vista. Questo è stato frutto di un lunghissimo lavoro. Abbiamo iniziato a lavorare allo spettacolo durante il primo lockdown dove, essendo noi vicini di casa, abbiamo avuto l’occasione di dedicare alla fase preparatoria il tantissimo tempo. Nel dramma della pandemia quel tempo sospeso da una parte surreale e disarmante si è trasformato così per noi in un immenso regalo che ha dato degli ottimi risultati. L'uomo dal fiore in bocca è frutto di una riuscitissima stratificazione creativa».
