«Play, jouer, spielen. In inglese, in francese e in tedesco la stesso verbo definisce attori, musicisti e bambini». Recitare, suonare, ma soprattutto giocare. Una parola magica che Pietro Sermonti custodisce come fosse una bussola. La porta con sé da sempre, ovunque, a maggior ragione sui set. «È il mio perimetro», ci racconta presentando «Tutti per Uma», l’esilarante commedia tra family e fiaba nei cinema dal 2 giugno con Vision Distribution. «Mi sono divertito come un pazzo durante le riprese, ho goduto della libertà e della formazione teatrale di Susy Laude (al debutto alla regia, ndr)».
In effetti in casa Ferliga – una famiglia di viticoltori tutta al maschile – ne succedono di ogni.
«Basta pensare alla principessa (Laura Bilgeri) che dice “mo je faccio er cucchiaio”: dove la ritrovi? Bellissimo anche il minuto di “Comiche” insieme a Lillo (Petrollo), una scena che abbiamo orchestrato sul momento, non era scritta. Insomma, all’interno degli stilemi del fantasy ci sono zone di commedia: lo definirei un family d’autore, in cui si affrontano anche tematiche come il bullismo e l’elaborazione del lutto».
L’impianto è comunque favolistico: crede sia cambiato oggi il rapporto con la fiaba?
«Fin dalla notte dei tempi l’uomo scopre se stesso attraverso le storie, la loro funzione è sacra. Ancora oggi mi accorgo che la mia nipotina si incanta davanti ad un racconto ed è capace di rivederlo 37 volte: è il nucleo dell’anima e penso che lo sarà per sempre».
C’è qualche fiaba a cui è rimasto particolarmente affezionato?
«Sono sempre stato un grande consumatore dei cartoni animati con gli animali, tipo Tom e Jerry o Willy il Coyote, non quelli soapoperistici. Poi mi colpiva tantissimo Hansel e Gretel, forse perché i fratelli Grimm erano capaci di terrorizzarmi».
Poi c’è il teatro, anche lì si raccontano storie.
«Per me è balsamo per l’anima, una bolla meravigliosa in cui è bellissimo stare. È affascinante quando inizia lo spettacolo e cala il silenzio, come in una partita di tennis, o su un set cinematografico. È il segnale che sta per accadere qualcosa di importante: non c’è spazio per altro, si spegnono i cellulari».
Che nell’ultimo anno e mezzo, a causa soprattutto delle restrizioni anti-Covid, sono stati preponderanti.
«Infatti, dopo questo lungo periodo di tv e tablet, consiglio a tutti di tornare in sala, nonostante la fatica – che capisco – di dover tenere le mascherine. Il mio è un invito fisico: riappropriarsi di spazi necessari».
A proposito di smartphone, nel film Lillo realizza video social. Le favole possono passare anche da lì?
«Oggigiorno quando senti storie, pensi subito a quelle di Instagram. È un mondo però dal quale sono fuori, la mia finestra sui social è il programma Propaganda Live, e mi basta. D’altronde sono un uomo del Novecento, mi piace la lentezza dei libri. Probabilmente, avessi 17 anni, certi mezzi di comunicazione mi coinvolgerebbero di più».
Lei invece interpreta l’apicoltore Ezio, vedovo e un po’ impacciato. Sente qualche analogia con il suo mitico personaggio in Boris, Stanis La Rochelle?
«Ammetto che da attore mi piace essere goffo. Però Stanis è una persona ridicola, Ezio invece è uomo ammaccato dalla vita, che vuole bene ai figli, che nel ricordo della moglie continua a produrre il miele, ma senza di lei il risultato finale è amaro».
Emerge con forza un lato-bambino. Lo sente anche dentro di sé e lo coltiva in qualche modo?
«Giocando, che sia una partita a carte, a dadi o a Subbuteo. E poi recitando, che in altre lingue coincide appunto con la parola giocare. Qui da noi, invece, il verbo recitare ha il retrogusto della falsificazione. Per dirla alla Stanis, su questo mi sento poco italiano».