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Miuccia Prada, una certa idea di presente

Più leggi per le donne, più politica nei nostri gesti. Miuccia Prada spiega perché è ora di «fare un passo», dal lavoro ai social (che vanno usati nel modo «più radicale e spericolato possibile»)
Miuccia Prada
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Questo articolo è stato pubblicato sul numero 39 di Vanity Fair, in edicola fino al 29 settembre.

Mai chiederle del futuro. «Il presente è una tale moltitudine di domande, figuriamoci se posso dire dove sarò tra dieci anni». Miuccia Prada ci risponde via zoom da una stanza foderata di velluto verde. Si muove tra due specchi di Michelangelo Pistoletto e altre due opere d’arte, tutti alle sue spalle, come farebbe il personaggio di un film distopico. Mentre la guardo, penso non sia un caso se Francesco Vezzoli, per questo numero, l’abbia ritratta nei panni dell’agente segreto Lemmy Caution, protagonista del film Alphaville, pellicola del 1965 girata da Jean-Luc Godard e ambientata in un futuro dove l’umanità è minacciata dalla dittatura tecnocratica. «Be’, in effetti l’argomento mi interessa molto, ho passato tutta l’estate a discutere e interrogarmi sul ruolo attuale della tecnologia». Calibra ogni termine, ripete «questo lo dico però non lo scriva», ragiona ad alta voce e insegue le sue stesse parole come fossero gli abiti più idonei a vestire i suoi pensieri. Oggi è a capo di un impero che vale 3,2 miliardi di euro: «la signora», come tutti la chiamano, è un fiume in piena visto da lontano e la sua potenza, sapientemente mitigata dalla distanza che mette tra sé e i suoi interlocutori, si manifesta pienamente solo quando le si sta vicino. Partiamo da Godard. «Le racconto di quando l’ho conosciuto. C’entra Vezzoli, per altro. Nel 2012 abbiamo fatto una mostra a Parigi proprio con Vezzoli, 24 Hours Museum. In occasione dell’apertura, avevo invitato artisti, scrittori, registi. Tra questi ho chiesto ci fosse anche Jean-Luc Godard. Mi sono detta: non verrà mai, ma voglio invitarlo lo stesso. Lui ha risposto subito dicendo che non sarebbe intervenuto ma che gli sarebbe piaciuto lavorare con me. Ho fatto un salto perché nemmeno pensavo sapesse chi io fossi. Abbiamo provato a incontrarci più volte e ci siamo scritti. Alla fine siamo riusciti a parlarci dal vivo in un albergo a Ginevra qualche tempo dopo. Gli ho chiesto cosa volesse fare con noi, abbiamo discusso e alla fine lui ha pensato di ricostruire il suo Atelier, luogo privato e di lavoro alla Fondazione Prada, a Milano, con tutti i suoi libri, le opere d’arte, i premi ricevuti e oggetti personali. Una sorta di installazione privata della sua arte».

Che cosa ha imparato da lui?
«La mia cultura è basata molto sulla cultura cinematografica degli anni ’60, su Godard ma anche, tra gli altri, Antonioni, Rossellini, Buñuel, sulla cosiddetta avanguardia cinematografica. Sa cosa mi piaceva davvero di quel mondo? È un argomento per altro che ha molto senso anche oggi: la gente allora sapeva bene cosa voleva perché c’erano precisi progetti di vita. Penso che negli anni ’60 tutti volevano quella vita, quei progetti: c’era un immaginario da seguire, un senso di appartenenza, un ideale preciso. Volevi far parte di quel mondo, un mondo di pensiero, di piacevolezza anche, di libertà. È anche grazie a quei film che io ho imparato cosa sia la società. Devo molto a quel cinema. E devo molto a Godard».

Sta forse dicendo che oggi, in epoca di sogni da social network, di influencer e di comunicazioni digitali, mancano progetti validi come lo erano allora?
«È una bella domanda e non so se ho una risposta precisa. Diciamo che innanzitutto ho capito che il digitale, intendo il web e i social network, è uno strumento. Come le dicevo, ho passato l’intera estate a tormentarmi con le domande sul digitale e alla fine ho preso una decisione: con tanti miei progetti, intraprenderò la strada del web e dei social nella maniera più radicale e spericolata possibile perché li ritengo lo strumento più importante di diffusione della conoscenza, uno dei più fondamentali in cui ti puoi esprimere. Disdegnarli sarebbe ridicolo. E poi, un’altra volta: basta giudicarli, sta a te decidere che contenuti metterci. Ecco, con la Fondazione, per esempio, io proverò a usarli per i miei fini. Del resto, sono strumenti che abbiamo il compito di imparare a conoscere fino in fondo. E quando dico così mi riferisco soprattutto a certa intellighenzia che li ha disdegnati fino a oggi, incapace di apprezzarne il valore. È ora di imparare veramente a usarli».

È sempre attenta alle avanguardie. Eppure anche lei non ha abbracciato questi mezzi fin dalla prima ora. Rimpiange di non averlo fatto?
«No. Però riconosco i miei limiti, tipici di una certa sinistra. Ammetto di aver sbagliato. Però trovo che rimpiangere sia inutile. È più utile agire e correggersi».

Parla di limiti di una certa sinistra: si riferisce forse a certi intellettuali che si sono ancorati nel passato facendosi sorpassare da tante Chiare Ferragni?
«No. Innanzitutto non sono d’accordo con i paragoni. Quello che posso notare è che siamo di fronte a una delle più grandi rivoluzioni della storia dell’umanità e la pandemia lo ha reso ancora più evidente. Pensi quanto sarebbe stato tutto peggiore senza la tecnologia di cui disponiamo. Certo, il web e i social rappresentano un metodo di conoscenza immediata e sintetica tendente alla semplificazione, e questo può essere pericoloso. Però trovo che lavorandoci sopra possiamo trovare delle soluzioni. Nella mia azienda, per esempio, abbiamo recuperato il tempo perso introducendo nuove voci e nuovi ruoli, come quello di mio figlio Lorenzo».

C’è un’altra questione spinosa legata ai social network: si stanno trasformando in una gogna mediatica che promuove la punizione e che ha spesso bisogno di creare il mito del nemico. Stiamo tornando alle piazze dove si bruciavano le streghe?
«Questo è l’aspetto negativo che i social portano alla luce. Devo dire che io li sto ancora studiando. E poi c’è un’altra questione che non mi è chiara: i social creano un pensiero o semplicemente lo riportano? È una domanda complessa».

Di fronte a tutte queste domande, alla miriade di giudizi, di fronte ai processi pubblici del politically correct e del #MeToo, per esempio, lei si sente meno libera di prima di esprimersi?
«Guardi, sinceramente ho cambiato idea sul #MeToo e anche sulle quote rosa. Riguardo a queste ultime, per esempio, se è necessaria l’esagerazione, lo so che non è l’ideale, ma se è necessaria va bene. Penso che ogni volta che ci sono delle rivoluzioni in corso succedano delle esagerazioni, e forse va bene così. Perché se non ci sono le esagerazioni, forse non cambia mai niente. Quindi adesso le accetto e penso facciano parte del processo. Del resto, i veri cambiamenti hanno sempre bisogno di momenti di rottura. E i momenti di rottura sono necessari e portano con sé esagerazioni».

A proposito di rivoluzioni: con la sua moda, col suo percorso estetico e culturale, ha contribuito allo scardinamento di molti cliché femminili. Oggi stiamo cercando di far tramontare la nostra civiltà patriarcale in favore di una più libera e inclusiva. Che cosa si può fare di più?
«Parlo per me e per quello che faccio. Fino a oggi, ho pensato di poter agire su un piano astratto e forse politico soprattutto con la mia Fondazione. Invece ora mi rendo conto che lo stesso impegno e lo stesso scopo possano essere introdotti nel mio lavoro di stilista. Forse devo imparare a essere più  radicale col mio lavoro».

Ancora di più?
«Mi spiego meglio. Oggi forse non basta più dire soltanto “non sono razzista” o “sono democratica”. Non basta elenca re le proprie convinzioni teoriche, bisogna fare qualcosa. Sto tornando a quello che ho sempre pensato, ovvero all’ambito politico che va implementato. Ogni persona dovrebbe essere più politica perché la dichiarazione di principio non basta. Tutti dobbiamo fare un passo in più. Nel mio lavoro, però, ci sono tante contraddizioni: se lavori nel lusso, per esempio, non sei credibile. E così tendo a non fare dichiarazioni politiche».

Ma non sarebbe ora di pensare il lusso in termini di eccellenza?
«Sì, ha ragione. Ma questa è una cosa che, ammetto, non ho ancora superato. Forse è un mio vecchio preconcetto».

Sicura non sia una scusa?
«Può darsi, ci ho pensato. Anzi, può darsi benissimo. La mia paura, però, è di cadere in certe iniziative politiche degli stilisti che sono solo strumentali alla vendita. Allora preferisco sbagliare e non farle. La strumentalizzazione della politica per scopi commerciali mi fa orrore».

È più facile farlo con l’arte, con la sua Fondazione?
«Certo, perché toccano meno la realtà, sono più astratte, stanno in una sorta di limbo».

Torniamo all’arte e alla sua Fondazione: il Covid si è portato via Germano Celant, un grande curatore che con lei ha lavorato molto. Le manca?
«Celant è stato un grande maestro che ci ha insegnato la qualità. Tra di noi c’era un patto chiaro: io facevo quello che volevo e lui lo rendeva più scientifico, lo sviluppava in una prospettiva storica. Mi mancherà molto perché era un punto di riferimento anche per la sua grande intelligenza e la vastissima cultura, oltre a essere un amico. Non ci sono più storici colti e preparati come lui».

Come si fa ad andare oltre le perdite?
«Guardi, nel nostro lavoro mi sono abituata. La gente va e viene. Per risolvere il problema, io ho imparato ad aprirmi a qualunque cambiamento. Altrimenti tutto diventa troppo difficile».

A proposito di chi va e chi viene: difficilmente gli stilisti eleggono dei successori. Lei l’ha fatto scegliendo un uomo: il designer belga Raf Simons.
«Ecco, diciamo che lei è forse il primo a parlare di erede o di successione quando invece si tratta di un dialogo con un altro creativo. Ho sempre detto che non amo fare collabo razioni. Che vedo le collaborazioni con altri stilisti o come qualcosa per vendere di più o come qualcosa che finiva per essere troppo impegnativa. E io ho già abbastanza lavoro. Però l’intuizione di dialogare con lui è una bella idea che apre le porte e mette in discussione la leadership del creativo unico e solo».

Arriviamo a un altro uomo che ha scelto per la grande affinità elettiva che vi unisce: Francesco Vezzoli. Che cosa le piace di lui?
«Vezzoli è uno degli artisti più politici che io conosca, forse il più politico. Lui non vuole sembrare tale, fa di tutto per risultare frivolo, banale, superficiale. Ma di fatto è uno tra i più profondamente politici. E questo mi piace e mi rispechia. Poi è davvero brillante. Mi diverte tantissimo quando commentiamo certe cadute di stile di molti intellettuali. Con lui posso affrontare gli argomenti più vasti e aver sempre in cambio un punto di vista propositivo. Mi piace il contesto delle sue idee e mi incuriosisce sempre. È coltissimo, anche se si sforza in ogni modo di apparire all’opposto».

Le somiglia in questo?
«Non lo so. Forse nelle intenzioni sì, ma non nei modi».

Fuggite entrambi dalla gabbia dorata di certi intellettuali…
«Oh sì, questo ci accomuna».

Eppure tanta sinistra continua a rifiutare il contemporaneo, il confronto col mondo.
«E questo è un grande errore. Che tutti stiamo pagando. Tutti. Ma c’è una giustificazione, a mio parere. Fino agli anni ’80, il mondo era piccolo, bianco, limitato. E limitato era il punto di osservazione. Con l’ingresso del web il mondo è tutto insieme, tutto a disposizione. La lettura della realtà diventa difficilissima, hai a che fare con una moltitudine di culture, popoli, subculture, differenze. Una lettura globale richiede una mente agile, diversa da quella del Novecento. Era più facile prima dire chi stava dove. E quando non sai leggere il mondo non puoi nemmeno elaborare un’analisi e quindi una visione. E qui arriviamo al punto: qual è la visione che
mi proponi? Qual è il vero cambiamento? E perché dovrei votarlo? Ci vuole una visione perché stiamo elaborando dei cambiamenti incredibili. E anche perché stiamo vivendo uno dei periodi più interessanti di sempre».

Lei come coltiva la sua visione?
«Leggo, parlo con le persone e nutro sempre la mia curiosità».

Quali sono le donne che oggi ammira di più?
«L’ho sempre detto: non ho miti né icone. M’interesso e mi appassiono di tutto. Devo dire, però, che sono sempre stata molto in ammirazione delle donne che lavorano e che devono affrontare ostacoli continui. Non voglio sembrare buonista, ma la fatica quotidiana delle donne che si sostituiscono allo Stato o che affrontano le violenze mi colpisce molto. Sono vere eroine».

Cosa si può, cosa si deve fare per loro?
«Leggi, ci vogliono leggi. Per loro, per il loro lavoro, per la loro tutela, per i loro figli».

Che cosa consiglia loro intanto?
«Di provare e provare ancora di più. La nostra è una lotta che continua e deve continuare sempre di più. Il problema delle lotte femminili, poi, è che sono doppie: devi fare una lotta politica pubblica e una privata. Nella sfera privata, devi perseguire i tuoi diritti mantenendo i rapporti affettivi e non rinunciando mai alla gentilezza e alla disponibilità. Mai rinunciare alle nostre qualità femminili. Io voglio usare tutti gli strumenti che ho. Quelli da donna. E quelli maschili».

Non è una questione che riguarda anche gli uomini?
«Sì, certo. Ma gli uomini, spesso, sono messi meglio di noi».

Non abbiamo parlato di moda. La moda è ancora influente?
«L’importanza della moda deriva dal suo immaginario, dalla sua presenza. La moda è come ti vesti, come ti rappresenti, come ti giudichi, come sei giudicata, come reagisci. La moda tocca le sfere più intime del pubblico e del privato, per questo è guardata con imbarazzo. E per questo è e resterà influente».

Ci vuole intelligenza per saperla usare?
«Sì, se vuoi che ti serva».

Come vede certe nuove generazioni che la usano come una letteratura, come un linguaggio per emanciparsi da generi e cliché?
«Mi piacciono e le stimo. Ma vedo che siamo molto, molto lontani dall’eliminazione degli stereotipi e dei cliché».

Che cosa le fa più paura oggi?
«Mi spaventa la sottovalutazione dell’importanza della cultura. La pandemia, in un certo senso, ha riportato in auge gli esperti mentre negli anni precedenti abbiamo assistito alla demolizione di tutte le élite, comprese quelle colte. Io, invece, credo fermamente nella cultura e nella conoscenza come valori fondamentali».

Un’ultima domanda: dove si vede tra dieci anni?
«La verità? Non ne ho la minima idea».

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