Torno sulla strage del Salvemini dopo aver conosciuto uno dei superstiti: una piantata come quella non perdona
Questo approfondimento al mio precedente post sulla tragedia del 6 dicembre 1990 vuole essere una riflessione dettata dall’onestà intellettuale e non un’arida risposta alle precisazioni ricevute sia dall’Associazione Vittime del Salvemini, sia da Giovanni Lamanna, anche lui da sempre attivo nella ricerca della verità su quanto avvenne quella mattina: con lui ho avuto un paio di conversazioni lunghe, cordiali, sincere e del tutto costruttive.
Prima di tutto credo sia opportuno fare una distinzione fra opinioni, giudizi personali e fatti acclarati: partendo da questi ultimi, prendo atto che le condizioni meteo di quella mattina erano palesemente diverse da quelle che ho rappresentato: Lamanna era lì e chi meglio di lui può testimoniare che era una giornata limpida e di bel tempo? Io però devo aggiungere che il tragico esito dell’avaria all’MB 326 sarebbe stato probabilmente identico, quali che fossero state le condizioni meteo.
Quando ho usato l’avverbio “fortunatamente”, esso era riferito al fatto che nel nostro Paese eventi disastrosi che coinvolgono aerei militari o civili provocando vittime a terra sono rarissimi: l’attività addestrativa dell’Aeronautica Militare, quella stessa che contribuisce a garantire la sicurezza del nostro Paese, è del tutto necessaria e basata su procedure rigorose ed aeromobili in stato di manutenzione pressoché perfetto: il cosiddetto “rischio zero” è purtroppo impossibile sia in contesti militari che civili. Basta dare un’occhiata al sito Flight Radar24 per rendersi conto dell’impressionante traffico solo di velivoli civili che giornalmente passano sulle nostre teste: è un fatto che le vittime a terra causate da aerei precipitati sono una parte infinitesimale, ad esempio, delle vittime della strada.
Detto questo, è vero quanto riportato dalla “Associazione Vittime del Salvemini” riguardo al numero dei velivoli militari caduti in quel periodo, pur senza causare vittime a terra. Non mi risulta che l’MB 326 precipitato a Casalecchio avesse “avuto piantate di motore anche nei mesi precedenti”: sono ovviamente interessato a sapere se esistono riscontri ufficiali in tal senso, normalmente ci dovrebbero essere risultanze nei registri di manutenzione e comunque se l’aeromobile era in volo, qualsiasi anomalia sarebbe stata corretta: rimane il fatto che in un velivolo monomotore come il “macchino”, una piantata secca di motore non perdona e, purtroppo, non lascia molta scelta. Con Lamanna abbiamo concordato una mia prossima visita sia al sito della tragedia sia al centro documentale dell’Associazione dove avrò modo di visionare documentazione alla quale, senza di loro, sarebbe estremamente difficile se non impossibile avere accesso.
È altrettanto vero che, in alcuni incidenti, a determinare la tragedia è stato l’ “elemento umano”, ovvero il comportamento e le decisioni di chi aveva determinate responsabilità. Dopo le osservazioni dell’Associazione delle Vittime e le conversazioni con Lamanna, mi sembra doveroso e necessario fare qualche riflessione in più.
Sono andato a documentarmi e appare veramente straordinario il legame che rimane tutt’ora tra gli ex-studenti del Salvemini scampati alla tragedia: la lesione emotiva non è mai completamente guarita ma il legame tra di loro ha consentito una profonda rielaborazione del dolore. “Non siamo più quelli di allora ma quella giornata ci ha reso ciò che siamo oggi”: questa è forse la frase che più di tutte ha avuto un impatto su queste riflessioni. Facendo un brevissimo passaggio personale, posso affermare (e ne ho scritto nel mio primo libro Supernotes) che una vicenda nella mia vita ebbe un impatto talmente doloroso e lacerante che, all’epoca, dubitavo fortemente di poterne uscire… ma ne uscii, sulle mie gambe, scrivendo un libro che non avrebbe mai visto la luce senza l’amico Luigi Carletti al quale sono profondamente grato per aver contribuito alla mia “guarigione”. Fu quella rielaborazione che mi consente di essere chi sono oggi.
Giovanni Lamanna non appare come un personaggio pubblico ma come un testimone diretto di quella tragedia che mantiene viva la memoria delle vittime e penso che lo faccia con occhio rivolto anche alle nuove generazioni: se il concetto di tragica “fatalità” può non essere accettabile a chi è stato suo malgrado colpito direttamente o indirettamente “dalla più grande strage di adolescenti in tempo di pace” in Italia, io personalmente continuo a sostenere che così fu. Non si trattò di qualche operazione segreta o clandestina, di un “qualcosa” che andava “coperto”: fu solo una maledetta piantata di motore che accadde nel momento sbagliato sul posto sbagliato!
Ciò non vuol dire assolutamente ridurre quell’evento ad un’arida statistica, né sminuire le attività dell’Associazione e di Lamanna: la memoria non è solamente una fredda azione di ricostruzione storica, ma un patrimonio civile fatto di consapevolezza e di solidarietà da custodire.
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