C’è un prima e un dopo Lemmy Kilmister e a dieci anni dalla scomparsa siamo qui per ricordarlo
«You know I’m born to lose/and gambling is for fools/but that’s the way I like it, baby/I don’t want to live forever» («Sai che sono nato per perdere/e il gioco d’azzardo è per gli sciocchi/ma è così che mi piace, tesoro/Non voglio vivere per sempre» – Ace of spades). Dieci anni sono passati da quando l’icona del rock and roll Lemmy Kilmister, nato Ian Fraser Kilmister il giorno della vigilia di Natale del 1945, ha lasciato il palco per sempre vuoto, quattro giorni dopo l’ultima bevuta di Jack e Coca nel Rainbow Bar & Grill di Los Angeles.
Il prima e il dopo Lemmy Kilmister
Il suo stile di suonare il basso elettrico, un Rickenbacker variamente modificato, aggressivo e per accordi tonanti, ha fatto scuola e epoca nello speed metal e nell’hard rock in generale e, dopo i Motorhead, la band che ha portato alla gloria mondiale dei palchi più rumorosi della storia, nessuno ha pensato più di poter suonare al modo pizzicato e debole di prima, mentre lo strumento fino ad allora misconosciuto e poco compreso, da musicisti defilati, è diventato l’ascia d’assalto del frontman più tosto della sua generazione.
Il rock and roll come stile di vita
Lemmy, figlio di un cappellano militare e cresciuto, in un’isola nella baia di Liverpool, unico ragazzino inglese in mezzo centinaia di coetanei gallesi («un interessante esperimento antropologico»), capì ben presto, dopo un concerto dei Beatles visto a 16 anni, che la sua strada sarebbe stata la musica, anche perché era il modo più facile per attirare ragazze, come scopre il giorno che porta a scuola una chitarra senza saper suonare un accordo, riscuotendo comunque interesse.
Da quel momento all’esperienza musicale alterna – sì, non proprio il cursus honorum di un giovane conservatore – lavori saltuari e precoci scorribande da roadies (i tuttofare nei concerti che seguono le tournée), arrivando a 22 anni a lavorare per Jimi Hendrix, immancabili pacchetti di sigarette, bottiglie di bourbon e manciate di pillole, popolando un carnet di ballo di un numero non meglio precisato tra le 1200 e le 2000 conquiste femminili, figli illegittimi sparsi e, se a volte gli è capitato di non ricordare bene i nomi di qualche one night stand, certamente è un errore imputabile al risultato.
Nascita e ascesa dei Motorhead
Cacciato dalla prima band con la quale ha raggiunto una certa notorietà, gli Hawkind, perché a suo dire «era troppo fatto di una droga diversa da quella usata dal resto del gruppo», fonda i Motorhead, prendendo il nome da una canzone che aveva composto per il precedente e che in slang riporta agli effetti delle tanto amate anfetamine, anche se inizialmente aveva scelto il “delicatissimo” Bastards.
La voce profonda e gutturale e il basso fragoroso e distorto di Lemmy, i tamburi impazziti del batterista Phil “Philty Animal” Taylor e le chitarre supersoniche e potenti di “Fast” Eddie Clarck: la formazione storica del trio rock più potente in circolazione è quella che porta al successo la band. Trasformandola, nel giro di qualche anno e di infernali tour dal vivo (arrivano a suonare 53 concerti in 57 serate consecutive), e incidendo 22 album in studio e 10 dal vivo, oltre a innumerevoli collaborazioni. La forte personalità del frontman è quella che trascina il gruppo fino a un Olimpo che vive di bevute memorabili e stravizi tra droghe e amori occasionali, più che di atteggiamenti da star e divismi, sempre alieni al rude e patriarca del rumore Kilmister, che tuttavia stupisce anche per le sue profonde amicizie con alcune grandi musiciste dell’epoca, oltreché per il rispetto che dimostra verso alcun band al femminile che lo accompagnano durante i suoi infernali spettacoli.
«Fottersene» delle classifiche, dare tutto sul palco
Interrogandoci sul motivo del fascino ancora immutato di questo granitico rock and roller, la ragione potrebbe essere nella assoluta e istintiva simpatia che suscitava la sua fisicità da grande bestia urlante, sul palco: un uomo imponente a prescindere, con il cappellaccio da cowboy nero e borchiato d’argento sempre calcato, la chitarra basso impugnata come una mitragliatrice, il microfono calato dall’alto su cui letteralmente ululava violentemente carta vetrata e, a sorpresa, memorabili ballads roche.
Tuttavia di lui – nonostante le sigarette, le donne, le droghe e tutto il whisky del mondo, stereotipi di un modo di vivere live fast and die young che comunque lo ha condotto fino quasi all’ultimo dei suoi settant’anni – non si può non riconoscere la naturalezza di tough man, di hombre vertical, di maschio selvatico e grande padre, senza paura di nessuno, sprezzante nei confronti dello star system e fedele solo alla sua musica e al suo pubblico: «Le classifiche? Me ne fotto delle classifiche, ho sempre pensato a salire sul palco e dare tutto a chi, dopo una settimana di duro lavoro, era venuto là per divertirsi».
Lemmy è vivo e suona insieme a noi
Immune dalle mode musicali, ha continuato a suonare lo steso sound da martello compressore per quarant’anni, immune dal politicamente corretto come dalle miriadi di etichette che vanamente hanno cercato di affibbiare al suo modo di vivere libero e selvaggio, alle sua collezione di militaria nazista, al suo stile di calcare il palco senza compromessi e riguardi per nulla che non fosse la musica istintiva e potente con la quale sono cresciuti tutti i musicisti più significativi degli ultimi trent’anni, dai Metallica ai Nirvana, dagli Slayer ai Sepoltura. Manca e mancherà Lemmy, grande padre del rock’n’roll che, a dispetto di quanto volesse e cantava, vivrà sempre nella nostra musica.
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