Usa, visto negato a 5 funzionari europei tra cui Breton che se la prende più di tutti. Da Rubio avviso ai naviganti: invertire la rotta
Il vento di Washington soffia forte contro i “gendarmi” del pensiero unico: gli Usa negano i visti a 5 funzionari europei, tra cui Therry Breton che mastica amaro scomodando addirittura una maccartismo di ritorno oltreoceano… L’amministrazione Trump non perde tempo e scaglia il primo, pesantissimo fendente contro quello che il Segretario di Stato Marco Rubio definisce il «complesso industriale della censura» globale. Al centro dello scontro diplomatico c’è il divieto d’ingresso negli Stati Uniti imposto a cinque figure chiave dell’apparato regolatorio europeo. Personalità “accusate” di aver utilizzato il potere delle norme Ue per imbavagliare la libertà d’espressione sulle piattaforme americane.
In cima alla lista dei “non graditi” svetta l’ex commissario francese Thierry Breton, l’uomo che per anni ha brandito il Digital Services Act (DSA) come una clava contro i social media. E il messaggio che filtra dalla vicenda (e neanche tanto tra le righe) è: se l’Europa di Bruxelles pensava di poter esportare il suo modello di controllo digitale oltreoceano, la risposta della Casa Bianca è un “no” categorico. Che non ammette repliche.
Usa, visti negato a 5 funzionari europei, tra cui Thierry Breton
Ma riavvolgiamo il nastro e torniamo al caso che apre a tante e tali riflessioni. Si apre un nuovo fronte tra Washington e l’Europa: gli Stati Uniti hanno vietato l’ingresso a cinque funzionari europei, accusati di “censura” alle piattaforme online. Tra loro c’è l’ex commissario al mercato interno, il francese Thierry Breton, che su X ha retoricamente tuonato: «È tornata la caccia alle streghe di McCarthy?»…
Chi sono i 5 funzionari colpiti dal divieto
Secondo quanto riferito su X dalla sottosegretaria di Stato Sarah Rogers, oltre a Breton sono stati raggiunti dal divieto d’ingresso due direttori dell’organizzazione tedesca HateAid, impegnata nella lotta contro gli abusi online, Anna-Lena von Hodenberg e Josephine Ballon, la prima delle quali insignita a ottobre dell’ordine federale al merito della Repubblica tedesca per il suo lavoro contro la violenza digitale.
Gli altri due funzionari che non hanno avuto il visto sono Imran Ahmed, fondatore del Center for Countering Digital Hate US/UK, e Clare Melford, fondatrice Global Disinformation Index, con sede nel Regno Unito: entrambe le organizzazioni si occupano di contrastare l’odio online e la disinformazione.
Visto Usa negato a 5 funzionari europei: le reazioni dei destinatari del provvedimento
Come naturale che sia, immediate sono state le reazioni anche degli altri funzionari colpiti dal diniego del visto. HateAid ha definito il provvedimento americano «un atto di repressione». Mentre Breton – incalzando e insistendo dopo la battuta “sulla caccia alle streghe” – considerato l’architetto del Digital Service Act che, secondo gli Stati Uniti, avrebbe «imbavagliato» le piattaforme online, ha scritto ancora: «Ricordiamo che il 90% del Parlamento europeo, il nostro organo eletto democraticamente, e tutti i 27 Stati membri hanno votato all’unanimità il Dsa. La censura non è dove pensate che sia».
E ancora. «Non permetteremo di essere intimiditi da un governo che strumentalizza le accuse di censura per silenziare quelli che combattono per i diritti umani e la libertà di espressione», hanno rilanciato in una nota Ballon e von Hodenberg, ammettendo di non essere rimasti sorpresi dalla misura americana.
La condanna della Francia
Ma non è ancora tutto. Una dura presa di posizione da parte francese è arrivata anche dal ministro degli Esteri Jean-Noël Barrot, che ha contestato le parole del segretario di Stato americano Marco Rubio, secondo cui le leggi europee sono «un attacco a tutte le piattaforme americane ed al popolo americano da parte dei governi Ue». Il Dsa, ha ricordato il capo della diplomazia di Parigi, «è stato adottato democraticamente in Europa per assicurare che quello che è illegale offline lo sia anche online. Non ha in alcun modo una portata extraterritoriale. E in alcun modo colpisce gli Stati Uniti. I popoli europei sono liberi e sovrani e non possono lasciare che le regole che governano il loro spazio digitale siano imposte da altri».
Ma la reazione scomposta di Parigi e il richiamo di Breton alla “caccia alle streghe” suonano come il canto del cigno di un’élite burocratica che non accetta la fine della sua egemonia ideologica. Così come, mentre il ministro Barrot invoca la «sovranità digitale» europea, dimentica che per anni Bruxelles ha preteso di imporre standard restrittivi a società nate e cresciute sotto il Primo Emendamento americano.
Pertanto, la mossa di Rubio non è un atto di isolazionismo, ma un avviso ai naviganti. La difesa della libertà di parola torna a essere la bussola della politica estera statunitense. Non a caso, inizialmente, il dipartimento di Stato, prima di identificarli, aveva definito i cinque individui come «attivisti radicali» e organizzazioni non governative «strumentalizzate» che hanno promosso misure di censura da parte di Stati stranieri, guidando «sforzi organizzati per costringere le piattaforme americane a censurare, demonetizzare e sopprimere i punti di vista americani a cui si oppongono».
Avviso ai naviganti da Rubio: invertire la rotta
Di più. Su X Rubio aveva scritto: «Per troppo tempo, gli ideologi in Europa hanno guidato sforzi organizzati per costringere le piattaforme americane a punire i punti di vista americani a cui si oppongono. L’amministrazione Trump non tollererà più questi atti eclatanti di censura extraterritoriale». Il capo della diplomazia americana ha quindi anticipato che il dipartimento di Stato sta avviando divieti di ingresso contro quelle che ha descritto come figure di spicco del «complesso industriale della censura» globale. Con la possibilità di ampliare l’elenco «se altri non invertiranno la rotta».
Il che, fuori di metafora, suona: il tempo dei visti facili per i censori di professione è finito. Ora la palla passa a una Ue, che dovrà decidere se continuare a erigere barriere ideologiche. O se ritrovare la via di quella libertà d’espressione che è, o dovrebbe essere, la vera radice comune dell’Occidente.
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