Quello che Matteo Salvini ha messo in atto potrebbe essere individuato come “comunicazione di crisi”, un piano di comunicazione politica con l’obiettivo di ridurre la possibilità che si potesse verificare un danno di immagine. Il suo postare sui social, le piattaforme regine della persuasione politica, era martellante più degli spot di “Sanremo è Sanremo” che ogni anno ci ammorbano in attesa del Festival. Il suo quotidiano countdown interattivo, in attesa del processo del 20 dicembre, pareva una scommessa sulla scontata condanna visto che la logica delle “toghe rosse” non aveva per lui altre soluzioni percorribili.
Il finale “inaspettato” dell’assoluzione ha deluso le sue aspettative di giocare la carta del “martire” umano e politico per ravvivare l’incendio che già minaccia le sedie della giustizia e rafforzare la sua presenza nell’affollato spazio politico accanto ai grandi difensori dei confini Orban e Trump che dal 20 gennaio bandirà anche i transgender, proprio laddove sta sgomitando con successo l’amica/nemica Meloni. Tutta colpa delle toghe rosse in combutta con la sinistra delle “porte aperte agli immigrati”, slogan mutuato da una pubblicità della Renault di qualche anno fa, che si sono liquefatte nella nebbia in cui è ancora avvolto il suo Ponte sullo Stretto.
Matteo Salvini è uscito dal tribunale di Palermo con un sogghigno beffardo e un biglietto da visita aggiornato: “Non ho commesso il fatto”. Per chi come me, è amante inconsolato delle grandi incompiute, c’è stato da pensare che l’affermazione si riferisse proprio al Ponte e invece era il responso della sentenza. Assolto per non aver sequestrato nessuno. E gli immigrati a bordo della Open Arms? Erano in crociera, mica sequestrati. Nessun blocco illegale, dunque, ma una sosta per ammirare il tramonto al largo delle coste italiane. E se la sosta si è protratta per tre settimane è solo perché il tramonto italiano è così fantasmagorico da cambiare ogni giorno e donare emozioni che non sono mai uguali.
Eppure, il ministro, dietro quel sogghigno beffardo celava delusione. Ah, se fosse stato condannato! Allora si che avrebbe potuto programmare le dirette social per annunciare l’ingiustizia subita ponendosi come un martire moderno che non china la testa di fronte alle malvagità dei “giudei rossi”. Aveva già pronta la corona di spine fatta con il filo spinato di confine che gli era stato impossibile far piazzare nelle acque del Mediterraneo, con scritta in latino nunquam desistas. Così, indossata la corona e messosi in cammino per il calvario carcerario avrebbe potuto sgranare il suo iconico rosario e bruciare il numero record dei follower dei concorrenti influencer.
Adesso però non resta che preparar le locandine e il trailer per il sequel del tour a “riveder le stelle” sul Mediterraneo. Del resto, se anche la giustizia italiana conferma che non c’è stato sequestro, allora forse erano davvero in vacanza.
L'articolo Salvini e il piano persuasivo costruito sulla condanna proviene da Globalist.it.