Il digital banking sta sicuramente rivoluzionando la vita delle imprese e delle persone che vogliono allentare le maglie della burocrazia. Lo abbiamo visto anche con l’intervista a Bruno Reggiani, CEO di Tot Money. Le soluzioni all-in-one sono favorevoli alle start-up e alle aziende che operano nel settore dell’innovazione: per molti conta tantissimo poter aprire un conto online con pochi click. Il problema, tuttavia, resta quello dell’identità digitale delle persone che puntano ad avere questo conto online: come si fa a stabilire se si tratta di persone reali, se non ci sono delle truffe alle loro spalle? Da questo punto di vista, scatta tutta una procedura di verifica dell’identità da parte delle realtà del digital banking, che partono dall’associazione di un nome univoco a un documento di identità e che arrivano a prendere in esame anche la reputation digitale o l’utilizzo dei social network.
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In base alle informazioni che abbiamo raccolto, ad esempio, anche alcuni casi di omonimia con personaggi che – magari – sono stati protagonisti di vicende di cronaca controverse possono rappresentare delle red flags per chi opera nel settore del digital banking. Qualche mese fa, ad esempio, vi avevamo raccontato del caso paradossale del direttore editoriale della testata Today che aveva avuto problemi con la propria banca perché, in fase di verifica, il sistema di intelligenza artificiale che doveva confermarne l’identità, l’aveva scambiato per un omonimo, condannato per aver sottratto 6 milioni di euro. Ovviamente, in questo caso, non c’era alcun legame tra le due persone, se non quello di avere il nome e il cognome in comune.
Se questo fenomeno è ancora un fenomeno “analogico”, cosa dire – invece – delle procedure di identificazione che vengono bloccate perché, magari, l’utente non ha un account su WhatsApp o non ha un profilo sui social network? Qui occorre fare una distinzione. Se è vero che, ormai, il profilo social viene visto come una sorta di estensione della vita reale delle persone (anche perché è frequentissimo averne uno o più di uno), è pur vero che oggi gli utenti hanno una maggiore cultura del dato personale e ci pensano su due volte prima di lasciare a una piattaforma Big Tech tutte le informazioni sul proprio conto, se non sono strettamente necessarie. Sempre più persone, oggi, rinunciano ad avere un profilo social, preferiscono altri mezzi di comunicazione a WhatsApp, oppure si iscrivono ai social network con un nome profilo falso, che – comunque – non corrisponde a quello che c’è scritto sulla loro carta d’identità.
Dunque, forse, le fintech che si occupano di digital banking dovrebbero prendere in considerazione il fatto di non essere così severe nell’analisi del profilo social di un possibile correntista, trovare un compromesso e – soprattutto – avere la consapevolezza che, oggi, non è possibile sovvertire il principio della realtà: non possiamo accettare, infatti, la condizione che, se una persona ha un profilo social, allora esiste e se non ce l’ha, invece, è un fake. Semmai, è il contrario.
L'articolo Con una maggiore attenzione ai propri dati personali, bisogna rivedere le logiche dell’identificazione del cliente nel digital banking? proviene da Giornalettismo.