“Se ci fosse la possibilità di lavorare nel settore della carne coltivata, molti ricercatori all’estero tornerebbero in Italia domani”. Sebastiano Alberganti è il responsabile dello sviluppo a Mosa Meat, la prima azienda europea produttrice di carne coltivata, con sede a Maastricht, nei Paesi Bassi. Dopo aver studiato a Milano, la sua città, ha proseguito gli studi all’estero, dove si è fermato. E non ha dubbi: “È un peccato essere costretto a lavorare all’estero. In un Paese con la nostra cultura culinaria la carne coltivata potrebbe essere un progetto d’avanguardia. E invece rischiamo di rimanere indietro”. In Italia, un disegno di legge cerca di vietare la produzione e la diffusione, ma è stato bocciato per vizio di forma. Intanto in Europa proseguono le verifiche sull’inserimento della carne coltivata tra i “cibi del futuro”.
Una limitazione, quella italiana, su cui Alberganti è critico: “Le cose sono due: o è superfluo, perché se l’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, non permetterà la commercializzazione, non ci sarà comunque la possibilità di consumarla; oppure è e dannoso. Se l’Efsa darà il via libera, nessuno potrà impedire a un italiano di acquistarla, ma solo di produrla. E allora chi si sta davvero tutelando?”. Nessun membro Ue, infatti, può prendere decisioni che vadano ad ostacolare la libera circolazione dei cittadini, delle merci e dei servizi all’interno dell’Unione. Anche in Ungheria si è tentato di introdurre una legge analoga, bocciata dalla Commissione proprio perché fuori dalle competenze del Paese: la decisione spetta all’Ue.
Alcuni politici italiani hanno espresso preoccupazioni per la sicurezza alimentare, sottolineando la necessità di ulteriori studi sugli effetti a lungo termine di questo prodotto. Anche una parte dei potenziali consumatori manifesta dubbi etici sulla manipolazione cellulare, nonostante gli esperti – Alberganti incluso – abbiano sottolineato l’assenza di modifiche genetiche e l’approccio naturale del processo produttivo. Un aspetto evidenziato anche da Francesca Gallelli del Good Food Institute: “I divieti (italiano e ungherese, ndr) sono infondati, non essendo basati su evidenze scientifiche”.
Mosa Meat è stata fondata nel 2016 da Peter Verstrate e Mark Post, ideatore nel 2013 del primo burger coltivato, e professore dell’Università di Maastricht. In Olanda l’opinione pubblica è favorevole e il governo stesso sostiene la ricerca sull’innovazione alimentare. Proprio nel contesto universitario Alberganti si è avvicinato a questo mondo: “Tutto è nato in quei corridoi: una decina di studiosi, i laboratori del polo, e il desiderio di avere un impatto positivo sull’ambiente e sulla società. Da allora per me è diventata una missione”. L’obiettivo è aiutare a soddisfare la domanda globale di carne riducendo lo sfruttamento delle risorse del pianeta. Questo, a patto che l’Efsa certifichi che la carne coltivata sia sicura per la salute.
Il tema della sicurezza è fondamentale. Secondo Alberganti il settore garantisce standard equivalenti o superiori a quelli degli allevamenti tradizionali: “Il processo è sterile e controllato in ogni fase, dall’incisione iniziale alla coltivazione di grasso e muscolo. È un approccio molto naturale – spiega –. Riproduciamo in laboratorio le condizioni di crescita cellulare che avvengono all’interno del bovino, ma senza allevamenti intensivi, senza l’uso di antibiotici e senza dover uccidere”. Con effetti benefici, sottolinea, sia sulla vita dell’animale, come sostenuto anche dall’Organizzazione internazionale protezione animali, sia sulla salute del consumatore.
Ad oggi la carne coltivata è disponibile solo negli Stati Uniti e a Singapore, e il suo sapore resta sconosciuto alla maggioranza delle persone. “Il gusto della carne dipende soprattutto dal grasso. Basta togliere la componente lipidica da un pezzo di carne per non distinguere più se sia bovino, agnello o maiale – spiega – Per questo, la coltivazione del grasso è essenziale: ci consente di ottenere un sapore quasi identico a quello della carne tradizionale, con le stesse note sapide e aromatiche“. Un traguardo fondamentale per il successo commerciale del prodotto, che mira a soddisfare i consumatori onnivori. E che per ora presenta però un problema sostanziale: il costo.
“La maggior parte dei nutrienti che utilizziamo proviene dal settore farmaceutico, con prezzi elevati – ammette Alberganti – E anche i macchinari sono molto costosi. L’obiettivo tuttavia è ottimizzare al massimo le spese, anche progettando macchinari più piccoli e specifici per il settore alimentare, in modo da garantire nel tempo un prezzo ragionevole per il consumatore”. Il tutto in un mercato che, secondo un’analisi della società di consulenza Systemiq supportata dal Good Food Institute Europe, potrebbe valere in Europa, tra consumo ed esportazioni, da 15 a 85 miliardi di euro entro il 2050 e generare da 25mila a 90mila posti di lavoro.
I sostenitori del divieto, come alcune associazioni di categoria italiane, hanno evidenziato il rischio che la carne coltivata possa compromettere il lavoro degli allevatori, mettendo in crisi la filiera agricola. Eppure, secondo il ricercatore, il settore della carne coltivata non vuole sostituirsi a quello tradizionale. “Non vogliamo spodestare gli allevatori. Questa nuova tecnologia può essere introdotta negli stessi allevamenti – racconta Alberganti – Ci sono progetti che aiutano le fattorie a gestire la transizione verso un’agricoltura più sostenibile”. Come RespectFarms, in Olanda, che progetta impianti di produzione con micro-reattori adatti agli allevamenti e organizza corsi di formazione per gli allevatori. “Non ha senso opporsi al progresso – conclude – perché può essere positivo per tutti. La riduzione del bestiame sarà compensata dai nuovi reattori e da terreni più sostenibili, con benefici per l’ambiente e per l’uomo. Si spera anche in Italia”.
L'articolo “In Olanda mi occupo di carne coltivata. In Italia non lo posso fare, altrimenti tornerei. Non ha senso opporsi al progresso” proviene da Il Fatto Quotidiano.