Una prova di popolo come in Italia nessun altro – al momento e chissà per quanto – può vantare. Figuriamoci dall’altra parte del “campo”. L’edizione 2024 di Atreju ha registrato una settimana di partecipazione così tangibile da stupire anche tanti fra i cronisti e gli osservatori più scafati. Con un contesto economico e geopolitico a dir poco difficile, dopo due anni di governo vissuti all’interno di una congiuntura monstre e una terza manovra di impianto sociale e produttivista ma scritta dentro i vincoli stretti (tutt’altro che keynesiani) del nuovo Patto di stabilità, la sfida stravinta da Giorgia Meloni e dalla generazione Atreju al Circo Massimo offre alcuni spunti su cui è importante tornare. Il primo – di cui la kermesse è stata cartina di tornasole – riguarda lo stato di forma e la stabilità della leadership di Meloni.
Elemento epocale per la storica fragilità degli esecutivi italiani, oggi lo è soprattutto viste le condizioni precarie di quelli dei maggiori partner europei (ieri Olaf Scholz è stato sfiduciato; sabato il rating della Francia di Macron, da mesi senza governo, è stato declassato). Elemento che la stampa internazionale sta riconoscendo pienamente alla premier e al suo ruolo in maniera decisamente più lucida rispetto a tanti, troppi, analisti in patria. Se all’estero, infatti, media non certo teneri con la destra sottolineano il portato istituzionale del capo dell’esecutivo italiano nei tavoli che contano (l’ultima attestazione è dalla Cnn che ha parlato di «attore chiave delle relazioni europee con gli Stati Uniti»), quelli nostrani non riescono invece ad andare oltre l’aspetto drammaturgico e caricaturale. «Io sono Giorgia e resto Giorgia», ha banalizzato ad esempio Repubblica riassumendo allegoricamente l’intervento di chiusura della kermesse. Riflesso classista e acidello che certifica due errori. Numero uno: come se sia un’onta per un rappresentante del popolo, votato per declinare anche quel paradigma, restare aderente a ciò che si è promesso (e a se stessi). Numero due: come se Atreju non fosse un appuntamento con la propria comunità ma una stazione del G7.
Il secondo elemento è consequenziale proprio ai due errori di lettura e rivela il moto di invidia che avversari e detrattori dissimulano con il ditino puntato contro i toni comiziali: Giorgia Meloni “funziona” sui tavoli internazionali come nelle piazze. Un duplex capace di saldare allo stesso tempo l’intesa valoriale con i conservatori oltreoceano (Donald Trump e Javer Milei), di costituire in Europa l’elemento scardinante dei vecchi equilibri della Commissione, senza tralasciare la costruzione di rapporti bilaterali innovativi con Nazioni pronte a collaborare (i Paesi del Maghreb con Piano Mattei) o a modulare i progetti italiani (come la Gran Bretagna sull’immigrazione). Tutto questo senza perdere – lei sì – l’antica prassi gramsciana: la connessione sentimentale con il popolo. Non solo il proprio. Di più: al Circo Massimo non è andato in scena un semplice happening comunitario né tantomeno – come è stato maliziosamente osservato da qualcuno – la celebrazione plastica della grandeur, della potenza celebrata della forza di governo. È stata una settimana di sostanza: di politica, confronto e diritto di tribuna.
Arriviamo dunque al terzo punto. Meloni e i suoi con il “laboratorio” di Atreju, in un quarto di secolo, hanno tracciato un vero e proprio racconto della Nazione. Dell’epopea d’Italia, nello specifico, hanno fatto non archeologia ma ispirazione. Non codici per decrittare il passato ma significante per l’azione politica. Non stupisce, allora, che la piazza della destra di governo faccia di tutto per incarnare sempre di più l’idea di un “foro romano”, 2.0. Una piazza dialettica che comprende tutti. In cui ha preso parte, in maniera significativa, anche tanta opposizione al governo stesso. Che non a caso poi – come è avvenuto con Giuseppe Conte – ha finito per puntare il dito contro il (proprio) campo largo: l’alternativa che non c’è.
Tattica dell’ex grillino per reclamare identità specifica al suo nuovo M5S? Certamente sì. È altrettanto vero, però, che coglie un punto saliente: Elly Schlein non cita mai – eccezion fatta per la stagione dell’antifascismo – la storia patria. Mai un autore, un’opera letteraria, le gesta, un mito della cultura nazionale. È chiaro: non si sente partecipe del continuum. Un bel problema, come sanno bene gli architetti del Nazareno alla disperata ricerca del “centro perduto”: ossia di un federatore minimamente connesso con la tradizione delle culture politiche nazionali. Un bel problema perché Atreju ha dimostrato una volta per tutte quanta gente è pronta a seguire la “via italiana”. Dall’altra parte, invece, sono ancora fermi alle impostazioni del navigatore.
L'articolo L’editoriale. La prova “di popolo” di Atreju contro il campo largo senza (bari)centro sembra essere il primo su Secolo d'Italia.