Era annoiato John Belushi nel tardo pomeriggio del 14 ottobre 1977. Un intero giorno di riprese lungo i corridoi dell’università dell’Oregon a Eugene lo avevano fiaccato. Per le esigenze di copione di Animal House si era anche scolato in un solo sorso un litro di tè alla pesca dolciastro contenuto in una bottiglia di whisky...
Un trucco di scena per non sbronzarsi irrimediabilmente tra un ciak e l’altro. La sera, in cerca di un «vero bicchiere» si infila nella ballroom dello Eugene Hotel: sul palco c’è un esuberante cantante blues, Curtis Salgado, che prima soffia tutto il fiato che ha nell’armonica e poi intona Hey Bartender, un classico del vocalist e pianista Floyd Dixon. È il colpo di fulmine, l’accelerazione che cambia la sua vita e il corso della musica e del cinema. Mette in soffitta i vinili hard rock, compra centinaia di album e 45 giri blues (consigliato da Salgado), incontra Dan Aykroyd, fonda i Blues Brothers, li impone al programma tv Saturday Night Live con una performance memorabile e convince il regista John Landis a trasformarli in un film. Il resto è storia. La storia dei due comici che, portando gli occhiali da sole giorno e notte, hanno inventato dal nulla qualcosa destinato a rimanere per sempre.
E che ogni anno ricomincia dove tutto è iniziato davanti al portone di un ex carcere di massima sicurezza dell’Illinois, la Old Joliet Prison, il penitenziario che appare all’inizio del film cult, quando Aykroyd si presenta all’alba con la leggendaria e scassata Bluesmobile per prelevare Belushi a fine pena. Entrambi vestiti di nero con il cappello in testa, la camicia bianca e, naturalmente, gli occhiali scuri. Quarant’anni dopo, in un’afosa mattina d’estate del 2024, migliaia di «fratelli blues» agghindati di tutto punto si avviano al Sacro Graal con gli abiti della festa. Sessantenni nostalgici con a fianco figli e nipoti che i Blues Brothers li hanno scoperti sbirciando i mini clip del film presenti su TikTok e Instagram, intere famiglie e single. Tutti davanti alla Old Juliet Prison (ora diventata museo) per la «Blues Brothers Con», la convention che celebra e cavalca l’onda di un brand senza tempo che continua a fatturare nel mondo tra prodotti di merchandising, centinaia di tribute band (su tutte la Official Blues Brothers Revue), proiezioni ed eventi legati al film e profili social ufficiali per acchiappare (con successo) i ragazzi della Generazione Z.
Quando le porte della prigione si spalancano, tutto l’universo Blues Brothers è lì davanti ai loro occhi: la musica sparata dagli amplificatori, un enorme piazzale ribattezzato «Daley Plaza Bluesmobile Car Show» popolato da «Blumos», ovvero una parata di tentativi di clonazione dell’originale Bluesmobile del duo, una delle auto della polizia più famose della storia del cinema (Dodge Monaco 440 è il nome esatto del modello), la Blues Bar Beverage Tent con un’edizione limitata della Blues Brothers Beer e il Maxwell Street Merch Market, ovvero il paradiso del merchandising ufficiale.
E poi la musica dal vivo che parte al mattino e finisce dopo mezzanotte: le star accompagnate da una superband ovviamente sono Dan Aykroyd e Jim Belushi, il fratello di John (morto di overdose il 5 marzo del 1982 dopo una notte folle all’esclusivo Bungalow 3 dello Chateau Marmont di Los Angeles). Un ruolo di primo piano sul palcoscenico dell’ex carcere spetta poi al mitico Salgado, il vocalist e musicista che ha spinto John Belushi tra le braccia del blues proprio nel momento in cui Belushi, musicalmente parlando, si sentiva perso nel nulla: senza più la passione travolgente per il rock dei 70’s e per niente attratto dai falsetti e dai ritmi della disco music.
Come racconta bene il recente libro del premio Pulitzer Daniel De Vise, The Blues Brothers: An Epic Friendship, la missione prevista dalla sceneggiatura del film era quella di raccogliere fondi per un orfanotrofio di Chicago (da qui il leggendario quote «Siamo in missione per conto di Dio»), ma quella reale era rendere omaggio alla tradizione del Rhythm&Blues, includendo nel film giganti della musica come Aretha Franklin, Ray Charles, John Lee Hooker e James Brown. Un’impresa titanica che causò ritardi nelle riprese, una lievitazione esponenziale dei costi di produzione causata in buona parte dalle decine e decine di auto distrutte per le scene di inseguimento da parte della polizia. E poi c’era il fattore Belushi, quasi sempre alterato da droghe e alcol, in perenne ritardo sul set (si racconta anche di una scazzottata micidiale con il regista John Landis).
Trenta milioni di dollari buttati via, scrissero i principali quotidiani americani alla prima del film. Non venne capito dai media The Blues Brothers, che più o meno apertamente accusarono la pellicola non solo di essere inutilmente confusionaria, ma anche di appropriazione indebita della tradizione musicale black. Un’assurdità facilmente smentita dal fatto che tutto il film è una celebrazione senza «se» e senza «ma» della cultura musicale nera. Basta riguardare la straordinaria sequenza in cui Aretha Franklin intona Think.
Ad aggiustare le cose, come spesso accade, ci pensò il pubblico mondiale, che infischiandosene delle critiche negative trasformò The Blues Brothers in un trionfo commerciale. In poco tempo gli incassi superarono i 115 milioni di dollari (pari a 430 milioni di oggi), i critici si ritirarono in buon ordine e le scene del film iniziarono a entrare nell’immaginazione collettiva tramandando il mito di quei due «matti» vestiti come impresari delle pompe funebri di generazione in generazione, fino ad oggi e per sempre. Alla faccia di quelle ottocento sale americane che nel 1980 si rifiutarono di proiettare il film bollandolo come «poco adatto al grande pubblico». Quando si dice l’intuito…