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Baby gang in Veneto: giovani senza freno, violenza e famiglie lasciate sole

Non sono criminali professionisti, ma ostentano la stessa indifferenza verso le forze dell’ordine che avrebbero banditi di lungo corso. E quando non è indifferenza è sfrontatezza, assoluta mancanza di timore o di semplice rispetto.

E come per le divise, che chiamano all’inglese «police», per quelli che rompono, gli adulti che si intromettono. Hanno tra i 16 e i 22 anni, sono maschi e femmine, studiano nelle scuole cittadine e quando non sono residenti del capoluogo vivono nell’hinterland, da cui partono tutti i giorni per andare in classe, quando ci vanno. Almeno fin quando l’obbligo scolastico non viene meno, o finiscono le superiori. Dopo? Pochi lavorano.

I soldi? Quando non sono paghette o piccoli lavoretti sono “giri”. Di cosa non è chiaro, ma spesso la droga è uno di questi.

È il profilo dei protagonisti della furiosa rissa di giovedì sera a Treviso, con un ragazzo gravemente ferito, ma anche di tanti altri giovanissimi balordi che a più riprese hanno fatto rumore nelle città del Veneto per risse, violenze, intemperanze.

Intanto gli investigatori hanno identificato le due presunte autrici della violenza: sono due ragazze trevigiane di 17 e 19 anni, saranno indagate. Il ferito, un 22enne di Treviso, è stato per fortuna dichiarato fuori pericolo.

«Eravamo strafatti»

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Ne fanno uso e abuso, non si nascondono e non lo nascondono, come vivessero perennemente tra i testi di una delle canzoni trap dove droga, sesso, violenza valgono più della musica.

«Eravamo tutti strafatti, abbiamo preso tanta ketamina da non capire più nulla» hanno detto senza timore giovedì i protagonisti della serata di sangue in centro a treviso, mentre un coetaneo rischiava di morire dissanguato in strada dopo che una ragazzina del gruppo l’aveva colpito al collo con una bottiglia rotta. «Anche lui era stato aggressivo, come sempre succede quando è sotto ketch (ketamina, ndr), hanno cominciato a discutere e poi ha perso sangue, tantissimo sangue».

Né una lacrima, né un ripensamento. Quand’è arrivata la polizia i ragazzini si erano tutti dileguati tranne un paio, paralizzati più dagli stupefacenti che dalla paura o dal timore.

La sfrontatezza

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Gli agenti hanno portato in questura tre di loro, due ragazze e un ragazzo, poco dopo l’aggressione, gli altri dileguati nel buio, fuggiti al grido «via via, c’è la police».

In Questura, davanti agli agenti, sotto i neon delle stanze, ci si aspettava parlassero. Invece eccole. Davanti ai poliziotti in divisa l’atteggiamento è sfida, di sprezzo, come si trattasse di un gioco dove vale la legge della violenza. Vince chi oltrepassa il limite rivendicando la propria forza a suon di botte e soprusi, e quando la rabbia, inaudita, che covano dentro, deflagra, neanche la paura della morte basta a fermarli.

Neanche messe di fronte all’evidenza e al rischio di provvedimenti penali la corazza mostra il minimo cedimento, le due ragazze sospettate di essere le autrici dell’aggressione al 22enne tacciono, e quando parlano lo fanno pronunciando una frase che non si dimentica: «Scopritelo voi chi è stato».

Di fronte all’accusa di tentato omicidio pare abbiano dimostrato la più totale indifferenza. Significativo del contesto in cui le bulle e gli altri membri del gruppetto sono cresciuti il fatto che nessun genitore, nessun parente in queste ore si sia fatto avanti in questura per denunciare il fatto. Lo stesso si era verificato, nel recente passato, per altri coetanei autori di gesti oltre le righe. Dei ragazzi e delle ragazze che sarebbero stati identificati come parte dei giovani che hanno presenziato o partecipato alle violenze molti hanno precedenti per piccoli reati, furti, falsi e aggressioni.

Il contesto sociale

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Gli stessi che a Treviso hanno occupato le cronache degli ultimi mesi. Ma hanno imperversato anche a Padova, Mestre, Belluno, Verona e Vicenza. Il copione è lo stesso, bravate per passare il tempo, violenze e scontri gratuiti scaturiti per futili motivi o per faccende legate allo spaccio di droga.

Fra risse, piccoli furti, pomeriggi a fumare, bere e provare l’ultima droga sintetica reperibile sul mercato i ragazzi e le ragazze come quelli identificati fra ieri e l’altro ieri dalla polizia a Treviso, trascorrono il tempo che resta dopo la scuola, spesso all’insaputa dei genitori. Molte delle famiglie di provenienza dei bulli, etichetta forse abusata nella difficoltà di inquadrare questi giovani, risiedono nelle città.

Sono lavoratori, anche con più figli a carico, a cui il poco tempo, talvolta questioni culturali impediscono di intercettare o fare fronte al disagio dei figli che man mano scivolano in un buco nero da cui è difficile riemergere. Ecco che la violenza diventa lo strumento per guadagnarsi un’identità, a scapito del prossimo.

«Mia figlia fuori controllo»

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«Siamo da soli, soli con una ragazza che nessuno prende in cura e che non si vuole curare. Una ragazza che forse si poteva salvare anni fa, ma ora appare irrecuperabile. È minorenne, si droga, vittima di se stessa e di un giro che non riusciamo a controllare, ma per lei ci siamo solo noi genitori». Raffaella è la madre di una della ragazzine che giovedì sera erano in via Castelmenardo, a Treviso, sul luogo dell’aggressione in cui ha rischiato di morire un ragazzo di 22 anni.
Voi genitori dove eravate” è il commento più facile. Lo sa, vero?
«Certo, ed è comprensibile, perchè ci sono anche ragazzi sbandati che sono il frutto di mancata educazione, di famiglie assenti. Ma quella di mia figlia è un’altra storia, una storia purtroppo comune però a tanti altri ragazzi, oggi, anche qui a Treviso».
Quando inizia?
«Aveva 13 anni, le venne diagnosticato un disturbo della personalità, manifestò i primi problemi a casa, poi a scuola, in terza media. Iniziò un percorso di cura tra colloqui e farmaci».
È servito?
«È stata una risposta standard, basica. Quando i problemi si sono accresciuti e le difficoltà sono diventate più evidenti ma non è cambiato nulla: medico, pastiglie, medico, pastiglie. Abbiamo detto che non bastava, che non andava bene. Che serviva un approccio più completo. Nulla».
Cosa intende per completo?
«Un luogo dove potessero gestire la sua malattia a tutto tondo, non sporadicamente».
Ma ci sono serd, centri diurni, comunità.
«Pensa che non ci sia andata? Ma parliamo di minorenni, la coercizione non esiste. Se non vuole andare, non va. Idem per medici, colloqui, cure».
Impossibile convincerla?
«Le parole non le intendeva ieri come non le intende oggi. A un no, a un obbligo, rispondeva con violenza. In casa è una guerra continua».
Quando è arrivata la droga?
«Solo l’ultimo anno. La deriva è iniziata in prima liceo. A scuola abbiamo fatto presente che aveva problemi, certificati, il loro interesse non è stato aiutarci a gestirla, ma fare in modo che la scuola non ci andasse di mezzo. Così ha iniziato a saltare lezioni, giorni, settimane nel disinteresse».
Voi non avete reagito?
«Abbiamo litigato con la scuola ma abbiamo trovato un muro. E anche quando la portavamo sulla soglia, non sapevamo se ci sarebbe andata. Un giorno fuori con un amico, un giorno con un altro. Un giorno da sola. E la situazione è degenerata. L’abbiamo trovata ubriaca, ha iniziato ad assumere qualunque pastiglia trovasse in casa, a perdersi in compagnie sempre peggiori».
Trattenerla?
«Ci abbiamo provato tantissimo. Ma la reazione era sempre più violenta: urla, oggetti rotti, offese, botte. Alla fine aprire la porta di casa era una liberazione, l’unica liberazione. Abbiamo anche un’altra parte di famiglia da difendere. Abbiamo dovuto togliere i coltelli da casa».
L’avete mai denunciata?

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«Alle autorità no, sarebbe benzina su un fuoco già troppo alto. E quale sarebbe l’effetto, farla arrestare? La prigione non guarisce e non avrebbe salvato noi genitori dal senso di colpa».
Avete chiesto aiuto?
«A tutti: servizi sociali, sanitari. Ma non puoi curare chi non vuole essere curato. Il sistema si ferma davanti al suo no. Siamo riusciti, pagando, a farla ricoverare in una clinica privata . Lì stava buona, perché la imbottivano: è tornata dipendente dalle benzodiazepine».
La comunità?
«Non ha mai voluto e non si possono costringere. Abbiamo provato con San Patrignano: l’hanno cacciata. È tornata a casa».
Le siete rimasti solo voi.
«Più che altro noi, da soli. Ma io e mio marito continuiamo a provarci. Anche se ogni giorno è un dolore e – fa male dirlo – sarebbe meglio uscisse dalla porta e non tornasse».
Ma potrebbe anche essere un “non tornare” più.
«Lo sappiamo, ma dobbiamo anche difendere la famiglia. Non abbiamo più una vita. Ogni giorno il pensiero è a cosa possa succedere, cosa possa fare. Non possiamo lasciarla sola e lei non ci vuole».
Gli amici di sua figlia?
«Ragazzi come lei, che fanno quello che fa lei. Nulla, e droga: canne, cocaina, crack»
Li avete denunciati?
«Mi mancano le prove»
Avete provato a farle tagliare i ponti?
«Ho perfino minacciato alcuni suoi conoscenti. Ma lei si è trovata altri».
Soldi?
«Io dormo con la borsa vicino al letto per paura prenda qualcosa. Non glieli diamo da anni. Ma purtroppo non è un problema per lei procurarsi quel che le serve. C’è un sacco di gente pronta ad approfittarsi di ragazzini così. Una dose se spacci un po’, una se mi dai qualcosa».

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