Fu Palmiro Togliatti, dopo averli visitati nel 1948 ed aver toccato con mano le condizioni igieniche in cui vivevano i suoi abitanti, a definirli “vergogna nazionale” e sarebbe toccato ad Alcide De Gasperi -presidente del Consiglio nel 1950, anch’egli durante una visita, decretarne, nel 1952, lo svuotamento: “non ci sono parole per commentare quello che poco fa ho visto: la povera gente dei Sassi non può continuare a vivere come bestie. Se finora nessuno si è preoccupato di queste persone, è venuto il tempo che si faccia qualcosa in loro favore per liberarli da una tristissima condizione”.
In realtà ad “accorgersi” di Matera era stato qualche anno prima Carlo Levi (1902-1975), che tra il 1935 ed il 1936 era stato condannato al confino proprio nelle “desolate terre di Lucania” a causa della sua attività antifascista: “deportato” nello sconosciutissimo borgo di Aliano, nel materano, nel suo “Cristo si è fermato ad Eboli” aveva contribuito ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale su quel girone infernale. La sua voce narrante riecheggia ancora in quel paesaggio dantesco: “dentro quei buchi neri, dalle pareti di terra vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi. Sul pavimento erano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha in genere una sola di quelle grotte per abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini, bestie. Di bambini ce n’era un’infinità. Nudi o coperti di stracci. Ho visto dei bambini seduti sull’uscio delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie. Era il tracoma. Sapevo che ce n’era quaggiù: ma vederlo così nel sudiciume e nella miseria è un’altra cosa. E le mosche si posavano sugli occhi e quelli pareva che non le sentissero coi visini grinzosi come dei vecchi e scheletrici per la fame: i capelli pieni di pidocchi e di croste. Le donne magre con dei lattanti denutriti e sporchi attaccati a dei seni vizzi: sembrava di essere in mezzo ad una città colpita dalla peste”.
Nella Matera di oggi ci accompagna Gabriele Scarcia, critico e storico dell’arte, scrittore e giornalista: una città in piena evoluzione, nel 2019 capitale Europea della Cultura, riuscita nell’impresa di trasformare proprio lo scenario dei Sassi in uno dei palcoscenici più famosi al mondo…
Proviamo a definirli i Sassi!
«Una scenografia. Una complessa, ciclopica, estrosa scenografia. A tratti talmente realistica da rasentare l’irrealisticità. Una sovrapposizione, una commistione di stradine, scale sconnesse, anfratti, claustri, porte e finestre fuori squadro, il tutto adornato da una decorazione vegetale ora spontanea ora acclimatata: edera rampicante, muschio, erbe aromatiche, ginepro, biancospino. L’intero quartiere storico risulta obbediente più che a progetti costruttivi, a finalità pratiche. Un versatile fondale in bianco e nero in un teatro a cielo aperto, con i palchetti che sono tutti dagli affacci dalla civita».
Arena o palcoscenico?
«Una sola parola che riecheggia come il vento quando questo corre attraversando il labirinto inestricabile dei percorsi: unicità! Certo Gravina. Laterza. Ginosa. Castellaneta. Il burrone. Il canyon. Ma Matera, da quando si è sviluppata lungo i dirupi, non ha mai smesso di popolare questa incisione nel terreno. L’insediamento umano è andato avanti dal neolitico modificandosi di pochissimo. Nel contempo, la presenza umana, è stata rispettosa del sito e man mano che si è eretta inevitabilmente una parte vieppiù nuova, questa non si è mai scollata e ha sentito il vecchio, quello che definirlo “centro storico” appare riduttivo, parte integrante del nuovo costruito».
Cosa attende chi non ha mai visitato questo complesso insediativo sospeso nel tempo?
«Resterà in bilico, tra l’amareggiato e il sorpreso, tanto il semplice curioso quanto il viandante solitario, come pure lo studioso meticoloso o il turista colto se cercherà un rigore geometrico e prospettico in un luogo-non luogo, almeno com’è concepito quest’ultimo nei nostri canoni estetici. Difatti non sarà di supporto un progetto architettonico. Inesistente il nome di un’urbanista. Ancor più arduo da calcolare il tempo o meglio l’idea stessa del tempo. Manca ogni pretesa di evoluzione abitativa. E con lo spettro di un’incertezza di fondo sempre in agguato: se affrontarne l’approccio avvalendosi dell’architettura, della speleologia o dell’ingegneria».
Siamo di fronte ad un’antichità decantata…
«Di fianco a Gerico e a Damasco, per antichità ancora maggiore, si annovera Matera, con un insediamento umano che non ha conosciuto interruzioni. E se vi sono state evoluzioni, nel senso di modifiche strutturali, queste sono state modeste, impercettibili in certi dettagli e dettate da un bisogno contingente. L’habitat rupestre è stato modellato dall’uso. Ha accolto il pastore come l’agricoltura. Si sono organizzati i villaggi. Si è cercato, con successo, di approvvigionarsi di acqua, di conservare le derrate alimentari. Non pareti, non murature, non stanze con porte regolari e finestre ma piuttosto gallerie, cunicoli, grotte, buche. Una moltiplicazione dello spazio, una dilatazione quando e come è stata d’uopo».
E la Matera del Novecento, quella della “vergogna nazionale”, come si presentava?
«Malaccio direi! Il discorso cade sempre sull’arretratezza. Sulla povertà. Sulle miserrime condizioni di vita. La malaria. L’analfabetismo. La coabitazione degli uomini con gli animali domestici. L’emigrazione. Per buona parte del ‘900, la città è ancora questa e non altro! Certo, vi è stata la politica che annovera la visita di De Gasperi e la sua legge speciale. Emilio Colombo, lucanissimo “costituente”, sentenziava: “se lo ricordassero i materani!”».
Ma cosa non dovevano dimenticare?
«Di un cambiamento epocale. Di un momento storico. Il trasferimento degli abitanti del rione in nuovi alloggi costruiti di sana pianta. Il conseguente spopolamento dell’antichissimo insediamento. Le decisioni contrastanti sull’utilità o meno di riconvertire quelle strutture, ma in cosa? In che? Il riconoscimento Unesco. Le copertine dei quotidiani nazionali e poi esteri. La filmografia. Gli studi sulle chiese rupestri. Sull’identità storica del contesto. Sugli aspetti antropologici. Le fisionomie, gli oggetti, i luoghi che s’imprimono tanto sulle pellicole delle macchine fotografiche quanto su quelle delle cineprese».
Poi, di recente, cosa succede?
«Un miracolo? Un riscatto? L’orgoglio civico? Il senso d’appartenenza? La candidatura e la vittoria del titolo di Capitale della cultura europea? Termini e concetti fin troppo abusati. In pochi sottolineano che ha vinto la panoramica di Matera. Hanno vinto i fotografi. Gli sceneggiatori. I registi. I circoli culturali autoctoni. Ha vinto il luogo mariano e cristologico per antonomasia dove l’uomo occidentale rintraccia la sua ancestrale appartenenza. Ha vinto l’umiltà. La perseveranza. La pazienza che un riflettore fosse acceso e puntato sopra questo spicchio di mondo».
Ma perché i Sassi funzionano? Attirano. Registrano e raccolgono gli interessi. Le emozioni…
«Mi viene in mente, in prestito dalla cinematografia, quell’immagine di King Kong che scruta l’Empire State Building. Noi e dunque le masse o il singolo individuo, siamo come quel gorilla. Siamo come la scimmia trapiantata in un contesto differente da quello d’origine che osserva i grattacieli. Le uniche forme ancestrali che lo riportano al suo mondo. Alla sua madre “terra”. I Sassi hanno la medesima forza evocativa. Generano, innescano nell’uomo moderno, alla sola vista, una specie di ricordo ancestrale nascosto, forse mai nemmeno affiorato».
Matera sembra un presepe…
«Quanti di noi, osservando i presepi napoletani del ‘700 o le riproduzioni infinite di quelli storici, anelerebbero viverci? Passeggiare anche solo per brevi attimi in quelle stradine. Respirare quella stessa aria di festa che tocca il cuore. Trasferirci in quel mondo incantato. Unico. Dove siamo sicuri, regni la pace e la concordia sociale. Dove tutto è plausibile. Dal mistero della natività al nome della città al quale basta una elisione per svelarla “mariana”».