“Industria meccanica (servizi, logistica ecc.) cerca stagista patentato e automunito, con diploma tecnico di scuola superiore. Richiesta serietà e disponibilità alle trasferte. Possibile futuro inserimento con contratto di apprendistato”. Di annunci così sono piene le bacheche delle Agenzie del Lavoro, ma ancora di più quelle delle principali agenzie di lavoro interinale.
Dunque c’è lavoro, le imprese cercano; allora perché non trovano? Pochi sanno che lo stage, ovvero “tirocinio formativo” – extracurricolare, per distinguerlo da quello curricolare, che fa parte dei percorsi di formazione professionale scolastica – non è un rapporto di lavoro, nemmeno di striscio, ma un “inserimento temporaneo all’interno di un’azienda […] finalizzato a realizzare dei momenti di studio e di lavoro nell’ambito dei processi formativi”. E anche che: “ha l’obiettivo di agevolare le scelte professionali del tirocinante mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro”.
Per legge uno stage non può durare meno di 2 mesi e non più di 6, allo stagista viene assegnato un rimborso spese mensile che varia da regione a regione: € 600 in Piemonte, Valle D’Aosta, Trentino, Abruzzo, Molise, Basilicata e Sardegna, ovviamente per 40 ore settimanali con riduzione percentuale in caso di orario ridotto. Il rimborso più alto è nel Lazio, 800 euro mensili, i più bassi in Calabria, Puglia, Umbria, Emilia-Romagna, Veneto con 400-450 euro, a metà strada le altre regioni.
Forse per pudore, in molte inserzioni il termine stagista viene sostituito da un più moderno junior. Non ci sono limiti di età, dunque si può essere stagisti anche a 60 anni, come ho raccontato in un post di qualche mese fa. Lo stage, infatti, può essere attivato anche per riconversione produttiva e professionale, dunque è adatto anche a persone “in età”, vittime della scomparsa della manifattura e non solo di quella, difficilmente ricollocabili per età, formazione e condizioni di salute. Solo che non dà luogo a versamenti di contributi previdenziali, dunque la pensione “vicina” resta in realtà lontanissima.
Passo dopo passo si è arrivati alla chiusura del cerchio: agli interventi classici del privato sociale a sostegno delle fasce più deboli della popolazione si sono aggiunti quelli a sostegno della ricollocazione (almeno temporanea) di persone che difficilmente il mercato del lavoro è disposto a prendere in considerazione. L’ente benefico (Caritas, San Vincenzo…) eroga qualche mese di tirocinio all’impresa a fronte dell’inserimento del soggetto in difficoltà in cambio della speranza che questa finisca per assumerlo.
La situazione economica e la miopia imprenditoriale, tuttavia, non lasciano scampo: gli stage per i vecchi – e non solo per loro – sono quasi tutti nella grande distribuzione e, in generale, nella manovalanza davvero intercambiabile dei supermercati. D’altra parte, quale azienda che guarda al futuro investirebbe sulla formazione di un sessantenne, magari perfino professionalizzato? Dunque, finiti i benefici dei sei mesi di lavoro gratuito per l’azienda, avanti un altro.
Qualche chance in più ce l’hanno le persone più giovani, per le quali lo stage si configura a volte come una specie di periodo di prova prolungato che poi forse diventerà un contratto di lavoro, magari in apprendistato. Anche in questo caso si tratta di un utilizzo dello stage ben oltre il limite per cui è stato pensato, tuttavia è ragionevole accreditare di buonafede i piccoli imprenditori di aziende nelle quali il valore è dato dai dipendenti: non vogliono rischiare di trovarsi in difficoltà per negligenze, sciatteria eccessiva, assenteismo e preferiscono provare prima, perfino un poco di più del lecito. Tanto che, a fronte di un contributo di 600 euro per 40 ore di lavoro, pretendono anche un diploma superiore, la patente e perfino l’auto.
Eppure già trent’anni fa era chiaro che l’imprenditoria italiana concepiva, nella sua grande parte, il suo rapporto con lo Stato e il suo concorso allo sviluppo del paese come un insieme di strategie per succhiare tutte le risorse disponibili. Non per far crescere l’azienda in un paese in crescita, ma per ottenere le risorse monetarie necessarie a finanziarizzare la loro attività: tanti profitti e utili da distribuire per foraggiare stipendi stratosferici di manager assoldati per lo scopo. La storia della Fiat e quella di tante altre industrie – grandi medie e piccole – della manifattura nostrana è lì a dimostrare quel percorso, con la complicità anche dei governi sedicenti progressisti. Lo Stato e gli enti locali hanno smesso di investire nel lavoro, anche quello che serve a sostenere le fasce più problematiche della popolazione, per delegare anche i servizi di base al privato, sociale o meno.
Insieme a leggi più stringenti contro l’uso improprio di strumenti e finanziamenti, c’è bisogno di una nuova cultura del lavoro – quella che chiama lavoratori e non risorse umane le persone che lavorano o sono in cerca – e di un massiccio piano di investimento pubblico per supportare il cambiamento necessario, perché è dimostrato che finanziare le imprese non genera posti di lavoro. L’esperienza dei Lavori Socialmente Utili e Progetti di Pubblica Utilità, che consentirono trent’anni fa di fare fronte alla prima ondata di deindustrializzazione e di tamponare la crescente disoccupazione giovanile, andrebbe ripresa, aggiornandola e adeguandola. Questo per farne la chiave di un paese che prova a ripartire, non già dalla rendita, ma dal lavoro. Dai onorevoli, consiglieri, sindaci, provateci!
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