Tra chi ha orientamenti conservatori o invece progressisti, dicono avanzate ricerche, ci sono differenze reali (e misurabili) a livello cerebrale. E il voto a destra o a sinistra sarebbe influenzato da un nucleo di materia grigia che presiede alle emozioni...
Quando nel 1789 i membri dell’Assemblea nazionale francese si riunirono per scrivere la nuova Costituzione, quelli che ritenevano che il re dovesse avere facoltà di veto sedettero alla destra del presidente e quelli che erano contrari presero posto a sinistra. Più che un disaccordo su una singola questione, a dividere gli schieramenti era un’attitudine nei confronti del cambiamento: a destra sedevano i deputati fedeli alla tradizione e all’Ancien Régime e a sinistra quelli che sostenevano il progresso e la rivoluzione. Gli storici della politica hanno sottolineato il fatto che questo evento segnò l’inizio dell’uso dei termini «destra» e «sinistra» nel dibattito politico. Ma hanno dato meno peso a un fatto apparentemente ovvio: il cervello di quei deputati aveva reagito diversamente di fronte a una scelta dalle enormi conseguenze future. Questo aspetto era piuttosto materia di psicologi e scienziati che oggi, con la cosiddetta «neuropolitica» basata sulle tecniche di neuroimaging per visualizzare il cervello durante le decisioni, sono giunti a conclusioni sorprendenti.
L’ultima in ordine di tempo si deve a tre psicologi dell’Università di Amsterdam e dell’American College of Greece i quali hanno analizzato le scansioni cerebrali di un campione di oltre 900 persone focalizzandosi su un’area chiamata amigdala. Questa è coinvolta, tra le altre cose, nella percezione del rischio: è una sorta di sistema di allarme che segnala circostanze pericolose richiamando la nostra attenzione. Nello studio, il gruppo era diviso in due categorie: «destra» (conservatori) e «sinistra» (progressisti), caratterizzate dai ricercatori nei modi seguenti. Quelli del primo gruppo preferivano preservare piuttosto che cambiare, volevano per lo Stato un ruolo minore nella vita delle persone, favorivano una forte difesa nazionale (militare) e chiedevano una riduzione delle tasse, anche se destinate all’istruzione e alle esigenze di base della popolazione; nella definizione degli scienziati, quelli di destra preferirebbero che le persone si assumessero la responsabilità primaria dei propri bisogni.
All’opposto, gli appartenenti all’altra categoria erano più aperti alle nuove idee, accettavano un’azione più invasiva dello Stato nella vita dei cittadini con interventi nell’educazione, nella sanità e nei bisogni primari in nome del raggiungimento di pari opportunità. Con queste premesse, le analisi dei ricercatori mostravano che l’amigdala delle persone a «destra» era più grande e sviluppata - con una maggiore attività - di coloro che si proclamavano progressisti. Per l’esattezza, un votante di sinistra avrebbe un’amigdala di circa 10 mm cubi più piccola di uno di destra, e ciò si traduce in migliaia di neuroni e milioni di sinapsi in meno in quell’area.
Un’altra zona cerebrale che nello studio presentava dimensioni maggiori nei conservatori era il «giro occipitotemporale». Questa regione svolge un ruolo nel riconoscimento dei visi e nella comprensione delle emozioni altrui attraverso la divisione delle persone in tipologie, quelle che ispirano fiducia o che, al contrario, non ne infondono.
Antonio Cerasa, direttore dell’Istituto di bio-immagini e dei sistemi biologici complessi (Ibsbc-Cnr) commenta: «Oggi la neuro-politica fornisce marcatori comportamentali validi da permettere ai politici di avere solide basi scientifiche su cui fondare la propria campagna. Una delle implicazioni più importanti di queste ricerche è che l’essere umano ha una naturale propensione verso politiche conservatrici oppure progressiste; e tale tendenza può essere facilmente indotta nella popolazione grazie a semplice propaganda politica in cui i candidati puntano a sottolineare la presenza di tangibili pericoli, come l’immigrazione o la perdita del lavoro a causa di altri. È una strategia che serve a convincere chi ha tendenze conservatrici a votare per partiti che proteggano il nucleo familiare o sociale dalle minacce esterne».
Un altro dato assai interessante sottolineato dalla neuropolitica è il legame tra la tendenza verso politiche di conservatorismo e l’eccessiva sensibilità agli odori. È stato dimostrato in uno studio sulla rivista Royal Society Open Science del 2018 che chi ha una maggior tendenza a provare repulsioni verso alcuni odori mostra più preferenze verso politiche «a forte autorità». E ciò ha un nesso profondo con il conservatorismo, come è emerso da un’analisi su Current Opinion in Behavioral Sciences. «Il tipo psico-sociale con attitudini conservatrici non solo ha un’amigdala più grande e reattiva ma ha anche una maggiore tendenza al disgusto per gli odori che spesso si estende al rifiuto per idee, persone, deviazioni sociali» aggiunge Cerasa. Non ci si meravigli che ci dividiamo nelle due categorie di conservatori (destra) e progressisti (sinistra).
La teoria dell’evoluzione suggerisce che la stessa sopravvivenza dell’umanità sia dipesa da questa separazione. Si immagini un gruppo di persone sempre più numerosa. Per i suoi membri cresce la difficoltà di sapere di chi fidarsi. Catalogare le persone può aiutare a capire su chi si può contare e su chi no. Non solo. L’emergere di due modi diversi di pensare, conservatore e progressista, reca con sé vantaggi. Se prevalessero i conservatori la comunità rischierebbe la stagnazione e l’esaurimento delle risorse in mancanza di nuove opportunità. Se s’imponesse, senza contraddittorio, il gruppo progressista si mescolerebbe indefinitamente con altri individui correndo il rischio di malattie o conflitti con l’esterno. Così, l’alternarsi al potere dell’una o dell’altra categoria favorisce la sopravvivenza dell’intero gruppo. In fin dei conti la neuro-politica non solo ci fa comprendere più a fondo l’essenza delle categorie di destra e sinistra ma anche quanto la loro coesistenza nella nostra società sia utile. Per quanto riguarda poi le necessità che «annacquano» le due posizioni in infiniti compromessi - magari avvicinandole spericolatamente - be’ lì la scienza lascia il campo all’arte del possibile...