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La Polonia è stanca della guerra

«La guerra? La paghiamo solo noi, ma è una sceneggiata di Zelensky: una roba di plastica». Wojtek parla bene italiano; con la sua Nissan porta su e giù dall’aeroporto Chopin al centro chi arriva a Varsavia. «Ho vissuto più di dieci anni in Italia: prima in Calabria poi a Milano. Ora gli italiani fanno il viaggio inverso: vengono a Varsavia a cercare lavoro, gli faccio da guida. Anche ai pensionati. Gli italiani qua sono ricchi, i nostri vecchi non arrivano a 360 euro al mese».

Scorrono di là dal finestrino i palazzoni in stile sovietico, ci sono ancora le villette degli apparatchik, i funzionari del Partito comunista, che arrivavano da Mosca e qui l’odio anti-russo è antico come il trattato - era il 1795 - con cui Caterina II e l’asburgico Francesco si spartirono la Polonia. Ma ancora più forte è il sentimento di repulsione verso i tedeschi. Wojtek invita: «In città c’è un triangolo dove devi andare: lì capisci tutto». È piazza Krasinskich, dove sorge il monumento all’insurrezione di Varsavia quando i polacchi cercarono di cacciare i nazisti e la repressione fu brutale come quella degli stalinisti appena qualche mese dopo. Ad abbracciare questi «resistenti» di bronzo sta il palazzo della Corte suprema: ogni colonna porta la citazione di un brocardo latino. Di fronte c’è la biblioteca nazionale e la Cattedrale di campo dell’esercito polacco tutto sorveglia. La legge, l’identità, la necessità di difendersi, i libri per ricordarsi, la Chiesa per sapere chi si è: la Polonia è tutta qui.

Appena più discosto c’è il monumento alla rivolta del ghetto del 1943. «Siamo gente che ha patito» s’inorgoglisce Wojtek. «Ma ora non vogliamo essere più sudditi di nessuno. Questi ucraini che ci hanno invaso se ne devono andare: vengono qua a fare i frontalieri, lavorano e poi se ne tornano a casa e ci portano via gli stipendi». E l’Europa? «Per noi è come la mia macchina: un taxi. Finita la corsa del benessere scendiamo. Vi raccontano che siamo per un rafforzamento del continente per difenderci da Putin. Ci deve pensare la Nato. Zelensky che vuole i nostri soldi ci ha stancato: non è in Europa, non è nella Nato perché dovremmo pagare per lui?».

Siamo arrivati a Nowy Swiat: la strada del passeggio. «Qua si mangia bene» invita Wojtek. «Specjaly Regionalne» è una trattoria, la mandano avanti cinque ragazzi. Inglese impeccabile per proporre la Perla, birra locale ottima, gli immancabili pierogi (sono dei ravioli) e il bigos, una zuppa di crauti, maiale, pancetta affumicata, prugne servita nella forma di pane. La fanno anche in Bielorussia. «Non ne parliamo» sussurra Dorota dalle trecce sbarazzine che ricadono su un maglione ben spesso. «Lukashenko ha deciso di farci invadere dai migranti: stanno arrivando tutti qua: musulmani, finti ucraini, siriani. Lukashenko e Putin ce li mandano per farci vivere male e l’Europa non fa nulla, ci hanno lasciati soli». Eppure la narrazione mainstream ha raccontato che Donald Tusk è tornato alla guida del governo di Varsavia interpretando l’afflato europeista dei polacchi stanchi di anni di governo sovranista del Pis di Jarosław Kaczynski, anche se a capo della Repubblica resta Andrzej Duda, il giurista che viene da Cracovia, assai affine a Lech Walesa, del quale la Polonia di Tusk sembra essersi incaricata di cancellare la presenza.

Eppure Solidarnosch è stato quanto più vicino possibile a quel monumento che in piazza Krasinskich - secondo un tassista che parla italiano - è ancora oggi l’anima della Polonia. Ma Tusk che dal primo gennaio riceverà da Viktor Orbán, il più acceso dei sovranisti europei, la presidenza di turno dell’Unione, si trova spiazzato. Ha dovuto rispolverare in fretta le linee guida contro l’immigrazione di Kaczynski. Ha deciso di sospendere il diritto di asilo, ha concesso alla polizia di frontiera di sparare se qualcuno tenta di entrare nel Paese. Deve farlo perché i numeri sono pesanti. In due anni di conflitto pare che circa 15 milioni di ucraini abbiano attraversato il confine polacco. Le stazioni di Przemysl e di Rzeszów sono state l’unica via di fuga, poi si sono trasformate in bivacchi, oggi sono presidiate dalla polizia di frontiera: in Polonia restano almeno 1,5 milioni di ucraini. Tusk per non smentire la vocazione europeista ha invocato lo stato di necessità.

Lukashenko e Putin usano i profughi come arma d’invasione: oltre centomila hanno attraversato il confine bielorusso. I polacchi non vogliono più i migranti, né la guerra, né pagare tasse per dare armi a Zelensky che i contadini polacchi vedono come un nemico. La polemica sul grano ucraino che entra in Ue senza dazi e fa dumping è tutt’altro che sopita. Kaczynski aveva messo in mora l’Ue sul punto, Tusk ha cercato di dire con Ursula von der Leyen: è un sacrificio per i fratelli ucraini. Ma i polacchi non si dimenticano i massacri in Volinia e in Galizia orientale perpetrati dai militari di Kiev al soldo di Hitler. Da qui la brusca virata di Tusk: «Non rispetteremo né attueremo alcuna idea dell’Ue, se siamo sicuri che danneggi la nostra sicurezza. Mi riferisco al patto sulla migrazione». Il premier - è stato presidente del Consiglio europeo dal 2014 al 2019 - con la «sua» Bruxelles ha un altro problema: i soldi. La Polonia ha già dato all’Ucraina quattro miliardi, ma ora il Pil nazionale non va così bene. Si attende una crescita sotto il 2 per cento, e l’inflazione resta alta - sopra i 5 punti - così i polacchi (disoccupazione sotto il 5 per cento) temono la concorrenza sui salari che può venire dall’immigrazione. Le paghe sono cresciute del 12,8 per cento su base annua e si attestano a una media di circa 7.700 euro all’anno. Tusk per salvare i conti ha promesso un’ulteriore spinta ai consumi, mascherando così i primi sintomi di deindustrializzazione che producono colossi come Manufaktura di Łódz. È uno dei più vasti centri commerciali d’Europa: 27 ettari di shopping, 15 sale cinematografiche, 60 fra bar e ristoranti dove i polacchi vanno addirittura in vacanza per spendere i loro zloty. Perché dell’euro non vogliono saperne.

Un sondaggio dell’aprile scorso rivela che il 68 per cento della popolazione dice «no» alla moneta unica. Persino la metà degli elettori di Tusk ha questa posizione. A cinque settimane dall’ingresso nella presidenza di turno dell’Unione Donald Tusk deve fare i conti con un’opinione pubblica sempre più lontana dall’Europa, stanca di guerra e diffidente verso Zelensky. Sarà per questo che cercando di anticipare le mosse dell’altro Donald (Trump) il premier polacco - deve spiegare ai concittadini che ha deciso di spendere oltre il 4 per cento del Pil per aumentare le difese anti-Putin - ha lanciato un’offensiva diplomatica coinvolgendo Emmanuel Macron, il primo ministro britannico Keir Starmer, il segretario generale della Nato Mark Rutte e gli Stati nordici e baltici per arrivare alla pace in Ucraina. A sorpresa ha escluso la Germania nonostante il «triangolo di Weimar» (Polonia-Francia-Germania) abbia rinnovato il sostegno comune a Kiev. Tusk volta le spalle a Berlino perché non ritiene più la Germania un partner economico affidabile. Gioca d’anticipo sapendo che gli Usa vogliono chiudere la crisi ucraina, con lo stesso Zelensky che ammette: «La guerra finirà entro il 2025».

I polacchi non aspettano altro e il loro primo ministro lo sa, anzi lo teme. Nonostante alle europee abbia raccolto il 37 per cento dei consensi, il Pis lo ha tallonato a pochi decimi di punto, ma soprattutto è cresciuto il sentimento antieuropeo. Robert Bakiewicz ha fondato Polexit per guidare Varsavia fuori dall’Europa. Un sondaggio di Research partner, il maggiore istituto di ricerca del Paese, ha rilevato che il 20 per cento degli intervistati spera di lasciare l’Ue, mentre il 62 per cento vuole restare. Per avere indicazioni ci si affaccia nell’antica cattedrale di Varsavia a due passi da piazza Mercato dove c’è la statua della sirena - gemella di quella di Copenaghen - che dà il nome alla città, qui i giovani cattolici pregano contro la «deriva abortista». Tusk ha proposto un disegno di legge per depenalizzare l’aiuto dato a una donna per abortire illegalmente entro le prime 12 settimane. La legge non è passata per tre voti e la Chiesa cattolica ha avuto il suo peso. Già: in Polonia la religione conta ancora; costituisce l’alveo della tradizione dove scorre l’identità nazionale. Così visitando il castello di Varsavia ricostruito dopo la distruzione del 1945, Magdalena, un’attempata custode, si raccomanda. «C’è un pezzo d’Italia con Marcello Bacciarelli nei dipinti, ma visitate lo studio dei presidenti della Repubblica in esilio: c’è anche Ryszard Kaczorowski, fu lui a nominare Lech Walesa presidente della Polonia liberata. Noi non possiamo dimenticarcelo».

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