La Corte penale internazionale (Cpi) offre un’apertura significativa per Israele: i mandati di arresto emessi nei confronti del primo ministro Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa Yoav Gallant potrebbero essere revocati. A patto, però, che Israele avvii un procedimento serio e imparziale, in conformità con il principio di «complementarità» che guida le azioni del Tribunale dell’Aja. Il portavoce della Cpi, Fadi El Abdallah, ha inoltre ribadito all’emittente israeliana Kan che i sospettati hanno diritto di ricorrere contro le decisioni della Corte. Netanyahu, peraltro, ha già annunciato di voler esercitare questo diritto.
Se da un lato la Corte tende la mano, dall’altro il governo israeliano resta oltraggiato. Gideon Sa’ar, ministro degli Esteri, ha definito i giudici dell’Aja un bersaglio legittimo delle pressioni internazionali, auspicando che gli Stati Uniti – e in particolare una futura amministrazione Trump – puniscano la Corte per le sue decisioni. Non solo gli Usa, ma «anche altri Paesi sono rimasti sconcertati» da questa scelta, ha detto Sa’ar durante una visita diplomatica in Repubblica Ceca, facendo intendere che non ci saranno le sanzioni statunitensi non saranno le sole.
Sul fronte nord del conflitto, invece, Israele rivendica successi importanti nella lotta contro Hezbollah. Secondo le stime dell’Idf, negli ultimi 14 mesi di conflitto sono stati uccisi circa 3.500 miliziani, compresi 176 alti comandanti, tra cui al vertice Hassan Nasrallah. Altri 7.000 sono rimasti feriti, riducendo drasticamente la capacità operativa del gruppo sciita. Nonostante ciò, Hezbollah conserva ancora circa metà delle sue forze iniziali, una resistenza che comunque preoccupa Tel Aviv.
Il cessate il fuoco, entrato in vigore meno di 48ore fa, è già oggetto di accuse reciproche. Il Libano denuncia ripetute violazioni da parte di Israele, compresi attacchi aerei nella regione meridionale, uno di questi contro due agenti di Hezbollah entrati in un noto sito di lancio di razzi. L’esercito israeliano riferisce di aver effettuato colpi di avvertimento «per contrastare la minaccia», impedire l’accesso di agenti di Hezbollah vicino al confine e garantire il rispetto degli accordi. L’esercito, ancora schierato ha ora meno di 60 giorni per completare il ritiro previsto dall’accordo, durante il quale il controllo sarà gradualmente trasferito all’esercito libanese. Un comitato guidato dagli Stati Uniti esaminerà poi eventuali reclami per violazioni della tregua.
La tregua ha permesso a migliaia di sfollati libanesi di tornare nei propri villaggi, ma la situazione resta drammatica. Due dei sei valichi tra Libano e Siria sono ancora operativi, mentre gli altri sono stati resi inutilizzabili dai bombardamenti israeliani. Secondo fonti libanesi, oltre 600.000 persone hanno attraversato il confine verso la Siria nell’ultimo anno. A peggiorare il quadro, il ministero della Salute libanese riporta 3.961 morti e oltre 16.000 feriti nel corso del conflitto.
Il dramma più grave, tuttavia, si consuma nella Striscia di Gaza. Il ministero della Salute, gestito da Hamas, dichiara numeri difficili da verificare: oltre 44.000 persone quelle che hanno perso la vita dall’inizio del conflitto. Solo nelle ultime 24 ore, 48 morti si sono aggiunti a un bilancio che include quasi 105.000 feriti.
A Londra, il dibattito sulla neutralità giornalistica si infiamma. Diverse penne di uno dei maggiori media britannici lasciano il sindacato nazionale dei giornalisti dopo l’invito a indossare abiti con i colori palestinesi o una kefiah nella giornata dedicata alla Palestina. «I giornalisti vengono incoraggiati a violare le linee guida editoriali della Bbc sostenendo una causa politica», ha dichiarato uno dei dipendenti al Times of Israel, sottolineando come questa iniziativa comprometta gravemente il principio di imparzialità, oltre ad essere «ipocrita e antisemita».
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