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Ben Sulayem, il Grande Dittatore della Fia: dalla protesta dei piloti alle epurazioni, cresce il dissenso nel mondo della F1

Da Fia a Eia: la Federazione internazionale dell’automobile sembra essere diventata un Emirato internazionale dell’automobile. Non c’entra però nulla la provenienza geografica del presidente, l’emiratino Mohammed Ben Sulayem, quanto le modalità di gestione del dissenso interno, dei non allineati alle politiche dei vertici. Chi non si conforma viene messo a tacere, attraverso licenziamenti (talvolta mascherati da dimissioni) o minacce di pesantissime sanzioni economiche. Gli ultimi ricambi in alcuni ruoli di vertice della federazione, uniti alla presa di posizione della Gpda, l’associazione dei piloti, contro il diktat sulla correttezza del linguaggio da utilizzare, rappresentano gli ultimi due episodi di una gestione, da parte di Ben Sulayem, più da sovrano-dittatore che da presidente.

Da quando è guidata da George Russell, la Gpda non ha mai brillato per intraprendenza. Basta ricordare il silenzio dopo il GP di Qatar dello scorso anno, quello in cui, a causa del caldo estremo, Ocon vomitò nel casco, Sargeant quasi sveniva nell’abitacolo, Alonso si ustionò. Un’associazione dormiente che si è scossa dal proprio torpore dopo le sanzioni comminate a Max Verstappen e Charles Leclerc per linguaggio inappropriato. Parolacce, va sottolineato, non indirizzate ad alcuna persona, bensì a un oggetto inanimato come una monoposto, oppure a una situazione di gara, o ancora al tempo atmosferico. Un’imposizione moralistica, da maestrino, che si aggiunge a quelle sul coretto abbigliamento da utilizzare nel paddock e a ciò che si può dire, attraverso interviste o messaggi su caschi o indumenti, in merito a determinati temi extrasportivi. Riguardo a quest’ultimo caso, la destinazione dell’eventuale multa pari a 1 milione di euro non è mai stata specificata dalla Fia, nonostante la richiesta di trasparenza avanzata a più riprese dai piloti. Ma nemmeno la menzionata presa di posizione ufficiale dalla Gpda ha ottenuto risposta. I sovrani non dialogano. Ordinano.

Le recenti rimozioni di Niels Wittich e Paolo Basarri sono stati gli ultimi movimenti in uscita all’interno di un processo di rimpasto federale che negli ultimi mesi ha messo alla porta Deborah Mayer, Steve Nielsen, Tim Gross, Natalie Robyn, Luke Skipper e Jacob Bangsgaard. Tutte figure di rilievo, visto che si tratta rispettivamente del direttore di corsa della F1, del responsabile della “commissione etica” (compliance officer), del capo della Comissione donne nel motorsport, del direttore sportivo, del capo tecnico, dell’amministratrice delegata, del direttore delle comunicazioni e del segretario generale della mobilità. La storia più importante riguarda Wittich, dimessosi secondo la Fia, licenziato invece secondo le parole del diretto interessato. Scelto come direttore di gara dopo la rimozione di Michael Masi, l’uomo del controverso (e irregolare) finale di Abu Dhabi 2021, per un anno Wittich aveva lavorato a fianco di Eduardo Freitas, poi licenziato dopo il GP di Suzuka del 2022 in quanto considerato responsabile dell’ingresso di una gru in pista per recuperare la Ferrari di Carlos Sainz quando non tutti i piloti erano rientrati nel gruppo dietro alla safety car, oltretutto in condizioni di pioggia che riduceva la visibilità. Wittich è stato rimosso dopo il GP del Brasile, con sole tre gare rimaste da correre nel mondiale, affidate a Rui Marques, ex direttore di gara F2 e F3, quindi privo di esperienza nella categoria maggiore. Più che le motivazioni, comunque non rese note (ma le direzioni di gara di Wittich non sono certo state sempre impeccabili), hanno stupito tempistica e scelta del sostituto.

Degne di menzione anche le uscite di Basarri e Robyn. La prima in quanto le (presunte) dimissioni avrebbero bypassato il protocollo organizzativo che prevede l’approvazione del Senato Fia. La seconda perché riguarda un ruolo, quello di amministratore delegato Fia, che fino a 18 mesi fa non esisteva, e che fu creato da Ben Sulayem allo scopo di incrementare la fetta dei guadagni della Federazione, nettamente sproporzionati a favore di Liberty Media. Una mossa che di fatto trasformava un potere idealmente solo amministrativo in una realtà commerciale, contrapponendosi a Liberty Media che a sua volta cercava di invadere il campo federale di determinazione delle regole, uscendo dal proprio ambito di gestione finanziaria. Un reciproco tentativo di invasione di campo al quale Ben Sulayem non si è mai sottratto, ma ha contribuito, anzi, ha più volte gettato benzina sul fuoco, come quando nel gennaio 2022 fece trapelare un’offerta di 20 miliardi di dollari da parte del fondo sovrano saudita PIF per acquistare la Formula 1. Perché se da un lato è vero che è la Fia ha la proprietaria dei diritti della F1, e che lo sfruttamento di questi è dato in concessione a Liberty Media per 100 anni, non va dimenticato il mandato dell’Unione Europea che separa i diritti sportivi da quelli commerciali, concedendo quindi a Liberty Media l’esclusiva dello sfruttamento dei diritti commerciali fino alla scadenza del contratto.

La tendenza a debordare dal proprio ambito è una costante di Ben Sulayem, basta ricordare la direttiva tecnica 39 con la quale scavalcò le scuderie e Formula One Group facendo passare come misura di sicurezza le prescrizioni per limitare il porpoising (il fenomeno del saltellamento) e quindi evitando il normale iter di approvazione. A un anno dalla scadenza del mandato, con un rapporto con piloti e federazioni passato dall’idillio dei primi mesi a relazioni sempre più burrascose, il presidente sembra optare verso una politica dai toni e dai modi più radicali rispetto a una improntata a strategie maggiormente concilianti.

Non è la prima volta che a capo della Fia c’è un personaggio dagli impulsi dittatoriali, basta ricordare Jean-Marie Balestre e la sua guerra contro Ayrton Senna per favorire Alain Prost (pubblicamente ammessa anni dopo la fine del suo mandato), con tanto di intervento per modificare la decisione di un commissario di gara. Però fu anche l’uomo che dovette gestire la prima guerra Fia (all’epoca Fisa) contro Foc (all’epoca Foca) che nel 1981 portò al primo Patto della Concordia. Quarant’anni e tre presidenti dopo siamo ancora lì, tra invasioni di campo, minacce di scissione, strategie elettorali e macchine del fango (su tutti il caso dei coniugi Wolff, finito in una bolla di sapone). Rispetto ai suoi predecessori Ben Sulayem non ha, fortunatamente, mai dovuto confrontarsi con la morte di piloti (Ratzenberger e Senna per Mosley, Bianchi per Todt), né ha dovuto gestire le conseguenze di un gran premio farsa (Mosley per Indianapolis 2005 e le gomme Michelin), né ha chiuso a tarallucci e vino il più grande scandalo della F1 (Todt per il Singapore-gate organizzato da Briatore e Symonds). Ma questo non basta certo a renderlo un presidente illuminato.

L'articolo Ben Sulayem, il Grande Dittatore della Fia: dalla protesta dei piloti alle epurazioni, cresce il dissenso nel mondo della F1 proviene da Il Fatto Quotidiano.

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