Artemisia si rivelò essere una combattiva donna del Seicento, quando c’era ben poco da alzare la cresta se portavi le gonne. Ma lei, dama Gentileschi (1593-1653), si fece sentire, uscendo con determinazione dal club delle donne violentate.
Il palcoscenico è il luogo dove si ragiona a fondo sulle cose serie. Sarà uno spettacolo secco, quello di giovedì 28 novembre a Cividale, un pezzo unico pregiato del cartellone dell’Ert, Ente regionale teatrale dal titolo “Non fui gentile, fui Gentileschi” un monologo di Debora Caprioglio utile a tratteggiare la femmina più risoluta dei suoi anni, pittrice eccelsa — malgrado questo fosse considerato un mestiere inopportuno per una signora — riuscì a farsi ammirare attraverso le applaudite opere di scuola caravaggesca e a finire persino sui banchi dell’Accademia delle arti del disegno di Firenze, la prima lady in Italia a farcela.
Un incontro, quello con l’antica signora romana, ideale per avvicinare il passato al contemporaneo. Lei, Debora, trova che questa sia una lettura corretta?
«Il vissuto di Artemisia giustifica un parallelo col presente per la tenacia sprigionata a favore della condizione della donna allora assolutamente inconcepibile. Assieme al regista Roberto D’Alessandro stavo cercando un’altra protagonista forte della Storia, dopo la rivelazione della Callas attraverso il racconto della governante Bruna, e l’abbiamo identificata, appunto, nella Gentileschi. Fra l’altro quando Roberto mi propose il copione gli dissi di sì senza nemmeno pensarci su la solita mezza giornata di prammatica».
Un’artista ancor oggi considerata di pregio assoluto, forse meno appariscente di altri. La Gentileschi riuscì a conquistare posizioni precluse alle donne.
«La condizione femminile di quel secolo rasentava davvero la follia. Il padre Orazio, che ne comprese il talento, affidò la figlia all’esperienza di Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva in d’trompe-l’œil, ma l’uomo stuprò la ragazza diciottenne promettendole poi un matrimonio riparatore che mai fu celebrato. Nonostante la prassi, che spesso condannava la donna, Tassi subì un processo e il tribunale lo punì con cinque anni di reclusione per “sverginamento”».
Il tratto delle opere di Artemisia è piuttosto deciso.
«Segno evidente di una fisicità nella lotta che ha dovuto imbastire la Gentileschi per la sopravvivenza. C’era un’esclusione quasi totale delle donne da qualunque impegno pubblico. In scena farò accenno a un altro caso, quello della nobildonna Beatrice Cenci giustiziata per aver ucciso il padre che abusava di lei. Alcune di loro si suicidarono piuttosto di affrontare l’onta di una violenza, vissuta come una colpa».
C’è da portarsi a casa un bel po’ di considerazioni.
«Oh certo, la riflessione è necessaria. Da allora abbiamo superato ostacoli insormontabili, soprattutto in Occidente, però il femminicidio resta purtroppo una piaga difficile da rimuovere. In certi Paesi, poi, non pare sia avvenuto alcun progresso».
Le piace monologare, Debora?
«È una prova severa. Sei tu e il pubblico, col quale inevitabilmente si deve creare un’empatia reciproca affinché si formi una sorta di dialogo fondamentale alla riuscita dello spettacolo. Un genere di teatro che amo affrontare, come del resto la prova collettiva. Infatti in questo periodo mi sdoppio in tre, parafrasando un film americano: Artemisia, la Callas e una commedia con Corrado Tedeschi, “Plaza Suite”».
Uno dei primi ricordi di lei attrice indietreggia fino al 1991 quando, bellissima, interpretò “Paprika” di Tinto Brass. La stagione degli erotici pare finita.
«Il cinema segue la vita e le mode imposte dalla vita. Il genere ha dato sensazioni ed emozioni quando il pubblico le richiedeva. Pensi solo al western. Scomparso dai radar. Ogni stagione ha i suoi colori cinematografici».
Il Friuli è nei suoi pensieri?
«Il teatro mi ha portato da voi mille volte. Ricordo serate a Cividale, Gemona, Cormòns. E ricordo anche dei magnifici calici di vino».