“Per la prima volta pubblico una foto del mio primo ricovero all’ospedale Bellaria di Bologna, novembre 2021… Così come è la prima volta che in tre anni scrivo quel che qui leggerete”.
Raimondo Moncada, giornalista, scrittore e blogger siciliano, tiene il diario del percorso che la malattia ha imposto alla sua vita, vivendo sulla propria pelle limiti e contraddizioni del nostro sistema sanitario. Sistema che un tempo ci era invidiato, ora mostra i segni di un pericoloso quotidiano sgretolamento, a vantaggio del privato.
Ieri come oggi, la sanità conosce un divario mai colmato tra Nord e Sud del Paese, divario che tende ad accentuarsi. A pagarne il prezzo sono i pazienti ma anche medici e operatori della sanità: professionalità che fuggono, ospedali che non attraggono, ruoli chiave che rimangono vuoti.
Dalla pagina più recente del diario di Raimondo Moncada:
A casa mia, nella mia terra, mi sento abbandonato, senza un punto di riferimento, sicuro, pronto, immediato.
I vertici sanitari non possono “farmi la testa tanta” sull’importanza dei controlli, sulla loro tempestività, aggiungendo pure che “salvano la vita”. È vero, salvano la vita, ma solo in un sistema sempre efficiente, in ogni fase: dalla prevenzione, alla diagnosi, alla cura, all’assistenza continua post-terapie e interventi.
A ottobre, a causa di un evento interno al mio provato corpo che mi ha fatto molto spaventare perché ha interessato l’area operata a giugno 2022 (tralascio i dettagli), ho cercato di prenotare in tempi ragionevoli una colonscopia.
Con tanto di ricetta medica, mia moglie si reca al CUP, il centro unico di prenotazione dell’Asp di Agrigento. Mi propongono una data che mi lascia a bocca aperta.
Ma come? Sono un codice 048 (il marchio dei pazienti oncologici), sono ancora dentro il percorso di esami e visite periodiche per tenere sotto controllo la patologia e l’area dove è stato rimosso il male, e mi rinviano così a lungo?
Mi propongono l’esame non tra un mese, non tra due, non nel 2025 (anno di Agrigento Capitale della Cultura), ma nel febbraio 2026, se decido di farlo a Sciacca.
La soluzione?
Presentarsi in una struttura privata e pagare, pagare, pagare.
E quindi?
Decido di emigrare fuori dalla mia provincia, restando nella mia Regione Siciliana. Posso tornare a Bologna per un esame? Aereo, permanenza… Tralascio i costi.
Mi presento così all’ospedale di Cefalù, una struttura privata convenzionata col sistema sanitario pubblico. Due ore e mezzo di macchina per arrivarci. Sto due giorni. Faccio l’esame il 7 novembre. Ho una diagnosi che mi mette ancor più in allarme: l’esame si deve ripetere con urgenza perché il medico non riesce a completare l’indagine.
Di nuovo la trafila:
Ma non me la sento di mettermi di nuovo in macchina: soffro a stare seduto per tanto tempo.
Riprovo allora col CUP del servizio sanitario pubblico. Ora c’è l’aggravante del referto di Cefalù. Così penso io, così spero.
Mi propongono due date:
Scelgo la data più vicina, quella dell’anno in cui si celebrerà Agrigento Capitale della Cultura, ma non della Cultura Sanitaria.
Un medico mi consiglia di accettare qualsiasi data e destinazione perché mi avrebbero chiamato da una struttura dell’ASP, tale CUR, nell’ambito di un progetto per l’abbattimento delle liste d’attesa. Ancora, vista l’urgenza, da martedì 12 novembre, giorno della prenotazione, attendo la chiamata.
E nel frattempo?
Vista l’urgenza e i preoccupanti episodi che non si arrestano, mia moglie prenota in un centro diagnostico privato a Sciacca che, pagando, nel giro di una settimana mi sottopone all’esame.
Se fossi stato costretto in questi tre anni a pagare ogni esame, visita, farmaco, intervento chirurgico o ricovero, sarei morto prima, risparmiandomi un lungo e incerto calvario.
Dove si prendono i soldi per affrontare col privato la lotta contro le aggressioni tumorali? Chi farebbe un prestito a uno che rischia di non esserci più? Quale assicurazione si farebbe avanti per tutelare la salute di un cittadino italiano?
Alle autorità sanitarie dico:
Riuscite a capire quello a cui siamo costretti? Riuscite a mettervi nei nostri panni, nelle nostre carni lacerate, nelle nostre teste sempre allarmate, nei nostri cuori che impazziscono al primo sospetto sintomo?
Questa non è la mia sanità, la sanità di cui ho bisogno.
Sono un paziente che in questa fase del suo percorso ha sintomi o complicazioni che non possono attendere due anni.
Sono un paziente X, come altri pazienti oncologici o con altre gravi patologie, che hanno bisogno della sanità pubblica perché senza morirebbero.
Siamo pazienti che ogni notte si addormentano sperando che l’indomani mattina la malattia non si risvegli con loro.
L'articolo La denuncia: “Chi sta distruggendo la sanità pubblica si metta nelle mie carni lacerate” proviene da Globalist.it.