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I dati sui femminicidi raccontano di un popolo che non si evolve: c’è bisogno di farsi sentire

La risposta è arrivata e chi doveva sentirla, se vuole, l’ha sentita. In migliaia l’hanno cantata, gridata, manifestata. Tra striscioni colorati e nessun ferito a fine corsa. La risposta, un passo dopo l’altro, un piede accanto all’altro, è sfilata a suon di musica e poi si è alzata, in un acuto liberatorio: il patriarcato c’è, esiste e va debellato.

Male endemico ma non figlio di questi soli tempi, è mutevole con loro. Perché a uccidere si continua, ma i mezzi e i metodi si modificano. Oggi ad anticipare il gesto violento e definitivo o lo sfregio permanente che vuol cancellare l’identità, c’è lo sguardo riprovatore, la battuta a mezza bocca che vuole svilire, il disappunto che vuole ridurre. Il patriarcato, che è vivo e vegeto, ha affinato le sue armi, prende la rincorsa, parte da lontano. Ogni epoca ha il suo metodo, ogni ceto il suo stile.

Manifestazioni di piazza come quella di Non una di meno che ha celebrato in anticipo di due giorni la giornata internazionale di lotta contro la violenza contro le donne non servono solo a far sapere in quanti si è a dire basta, ma anche e soprattutto a fornire consapevolezza nell’individuazione del pericolo, quando questo è ancora in fasce. Per non aspettare che sia troppo tardi.

A un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin, le donne che sono state uccise nel 2024 sono centosei, tre in più rispetto alle centrotrè del 25 novembre 2023. Un dato che è vergognosamente incomprensibile ma che non deve essere associato alla rassegnazione. E’ vero, in questo Paese non c’è solo la violenza di genere da combattere, c’è anche chi la nega al di là dei numeri. Per cui la fatica è doppia. Ma la tenacia che fa scaturire cortei floridi deve nascere da dentro le quattro mura domestiche. Perché se ci illudiamo di poter contare solo su leggi che vengano dall’alto, e le aspettiamo con ansia, rischiamo poi una grande delusione di fronte ai centri antiviolenza che chiudono perché non supportati oppure a norme non inclusive come la gestazione per altri che diventa reato universale o ai centri antiviolenza che rischiano di chiudere perché non supportati (a proposito, Lucha y Siesta e Non una di meno danno appuntamento oggi alle 17.30 a Montecitorio in nome dei femminismi e dell’antiviolenza -catcalling, violenza domestica, sessuale, economica, rivittimizzazione).

La politica non guarda la realtà, non vede un Paese che sta cambiando i suoi connotati, non osserva i suoi mutamenti, non studia i rimedi e le leggi. Anzi, cercando disperatamente di ancorarsi al passato, determina uno iato violento tra l’animo di un popolo e le norme che ne caratterizzano il vivere civile.

Non a caso in tutt’Italia in questi giorni prendono forma idee, dibattiti, conferenze e ragionamenti che puntano a capire dove ci stiamo muovendo al di là del mainstream che vorrebbe dirci che la violenza di genere è ascrivibile all’immigrazione. I numeri in questo ci vengono in aiuto ma i dati ancora di più. Perché i dati sono un tesoro da capire e da non manipolare, come ha sottolineato più volte la direttrice centrale dell’Istat, Linda Laura Sabbadini in un magistrale intervento nel corso delle giornate dell’Eredità delle donne, evento-movimento ideato da Serena Dandini e curato da Elastica al quale ho avuto la fortuna di partecipare. Il concetto è che le rivoluzioni, anche informative, non possono prescindere da una statistica democratica in cui i dati sono gli strumenti per capire la realtà e migliorare la vita dando visibilità a invisibili, donne, disabili, persone Lgbtq+, homeless e migranti. Dunque, i dati sui femminicidi ci raccontano di un popolo, il nostro, che deve fare i conti con una cultura da lasciarsi alle spalle.

Un pregiudizio che si avverte fin da quando le bambine frequentano la scuola dell’infanzia, le materie Stem, deve aver mormorato qualcuno al loro orecchio, non fanno per voi. “Quando mi sono iscritta alla Facoltà di Fisica a Tor Vergata eravamo sessanta corsisti, solo dieci le ragazze”, ha spiegato Licia Troisi, astrofisica e scrittrice fantasy italiana più tradotta al mondo. Sono dati, ovvero sono fotografie di una consapevolezza che manca.

E’ un’Italia che non fa i conti con i numeri della realtà autentica: quella, ad esempio, di una progressiva riduzione delle famiglie cosiddette tradizionali mentre è un dato che ci si sposi di meno e che siano in aumento quelle monoparentali. Per non parlare del mondo degli invisibili, ovvero di tutte le realtà Lgbtq+ che non sono censite. E che, per dirne solo uno, generano a un torto a una fascia nobile, quella dei nonni di bambini figli di coppie omosessuali, che a loro volta si vedono disconosciuti. Dati che raccontano la mancanza di welfare, il che costringe spesso le donne a scegliere: o un figlio o il lavoro. L’alternativa è stare a casa e far fare percorsi di soddisfazione ai partner.

E poi.

E poi c’è bisogno di farsi sentire. Ci vorrebbe più teatro civile, quello che fa sorridere e riflettere. Le case puzzano, diceva Gaber. E’ vero. Perché dentro a quattro mura può accadere di tutto e al di fuori potrebbe non saperlo mai nessuno. Per questo e a maggior ragione andrebbe insegnato alle giovani generazioni – e qui sì che ci vorrebbe una scuola al passo con i tempi – non solo un’educazione affettiva ma anche la consapevolezza di sé, che è culturale e mentale. E che fin da subito introduce un’idea nella testa fin da quando si è piccole, io non dipendo da te. Il passo successivo, ma che vedranno in futuro, è la consapevolezza finanziaria: (io non dipendo da te), quindi conti separati, io il mio, tu il tuo. Il patriarcato, che non dovrà mai correre il rischio di essere negato fin quando esiste, alberga nell’idea storica e distorta di poter incidere sulle donne forzando l’idea della loro incapacità, dello loro mancata autosufficienza. Non a caso mano a mano che la loro evoluzione da sperata si fa autentica, lo scarto verso il rifiuto di dettami imposti si rinforza. Ed è lì che si ha lo strappo che l’uomo non sa accettare perché non fa parte della cultura ancora dominante.

Siamo solo all’inizio di una percorso che ha il dovere di segnare il passo e affermare un concetto. Negare il patriarcato è un torto che si fa all’intelligenza di cittadini che concorrono a questo paese nel quale se la natalità e il suo desiderio si assottigliano progressivamente fino a diventare possibili solo a un ceto riconosciuto economicamente e socialmente un motivo c’è.

La violenza di genere non è solo il femminicidio; il femminicidio è l’ultimo passo di percorso che vi conduce, a partire dalla negazione di una società che chiede di essere riconosciuta nei suoi cambiamenti, nelle sue evoluzioni, nelle sue legittime aspettative. Negarle questo riconoscimento significa negare i diritti. Che se esistono solo per alcuni, ormai lo sappiamo, si chiamano privilegi.

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