Quella che si è appena conclusa è, con ogni probabilità, l’ultima edizione della Coppa Davis con Malaga sede dell’ultima fase, quella riservata alle otto squadre qualificate. In Andalusia si accedeva per gironi, ma dal 2025 non sarà più così: due turni a eliminazione diretta, poi quella precisa settimana di novembre. L’Italia potrà saltarne uno, visto il titolo riconquistato quest’anno dopo la cavalcata del 2023.
Un successo, questo, che affonda le sue radici dentro un girone, quello di Bologna, che ha anche mostrato l’assoluta profondità del tennis tricolore. Jannik Sinner non c’era, Lorenzo Musetti neppure, ma ci si poteva permettere un lusso: Matteo Berrettini da numero 2, con Flavio Cobolli e Matteo Arnaldi ad alternarsi nel ruolo di numeri 1. Risultato: cinque singolari vinti, uno solo perso e Simone Bolelli e Andrea Vavassori capaci di conquistare l’unico doppio che, ai fini del risultato, serviva eccome, quello con il Belgio. Detto anche che, quando contava, loro c’erano eccome.
Cambio di scenario, da Bologna a Malaga. Cosa sia accaduto a Musetti ormai è noto: allenamenti spettacolari, ingresso in partita con Francisco Cerundolo molto buono, blocco mentale a seguire. Il toscano il campo non l’ha più visto, ma è rimasto nel gruppo, anche quando Sinner e Berrettini si sono prodigati, contro l’Argentina, per mettere a segno qualcosa di notevole. Non tanto per il numero 1 del mondo da solo, perché Sebastian Baez sul veloce indoor per lui ad oggi non è e non può essere un problema, quanto per i due assieme. Un doppio che pareva una mezza follia, almeno all’inizio, e che invece ha funzionato benissimo, con Maximo Gonzalez e Andres Molteni che facevano di tutto per evitare Jannik e invece si ritrovavano Matteo a martellare, come del resto da suo soprannome.
A quel punto, l’altra svolta è arrivata nel match di Berrettini stesso contro Thanasi Kokkinakis. Lleyton Hewitt sapeva bene di potersi affidare al talento che nel 2024 era sempre riuscito a mettere il turbo in Davis, ma davanti c’era una versione del romano capace di non cedere mai nella fiducia, e alla fine di vincere. Nei fatti, questa Davis è sua su un piano praticamente identico a quello di Sinner. Perché se il numero 1 del mondo ha garantito totale sicurezza nei suoi singolari, l’ex numero 6 è praticamente entrato in corsa e ha inserito il turbo ogni volta che poteva. Sul destino felice dei due si è detto e scritto di tutto: oltre il campo, c’è anche un rapporto umano vero tra i due, ed è quello che ha fatto la differenza.
E non va dimenticato anche il fattore delle scelte, che poi è quello che ha indirizzato la Coppa. Scelte che Filippo Volandri, dopo il ko di Musetti, è riuscito a gestire molto bene, mentre per altri non si può dire lo stesso. Forse solo Hewitt ha realmente saputo interpretare al meglio le carte a disposizione, anche se è arrivata l’uscita in semifinale (vero, i Paesi Bassi sono stati i finalisti, ma il team olandese di Paul Haarhuis aveva tre scelte praticamente obbligate). Altrove, le cose non sono state proprio lineari. Bob Bryan si è incomprensibilmente giocato la carta Ben Shelton accanto a Tommy Paul in doppio, e questa è costata l’eliminazione agli USA. Quanto a David Ferrer, poi, era difficile resistere alla pressione di una settimana per l’addio di Rafael Nadal. Settimana che, però, si è trasformata in un giorno solo, perché la decisione di schierare il mancino di Manacor dove non giocava più da due anni e dove, oltretutto, non è mai stato lo stesso Nadal degli altri contesti nemmeno nei suoi anni migliori, gli si è ritorta contro. Certo, bisogna anche dare del merito a Wesley Koolhof, anche lui all’ultima in carriera, perché ha giocato un doppio magnifico. Rimarrà sempre il punto interrogativo di cosa sarebbe accaduto se invece di Nadal avesse esordito Roberto Bautista Agut, ponendo il maiorchino magari in doppio: la discussione in Spagna è tuttora viva.
Com’è come non è, alla fine quello che (anche) valuta la Davis è la profondità di un movimento. Quello dell’Italia, non c’è che dire, è profondissimo, e va ben al di là di Sinner, Musetti e Berrettini, con l’emergere di Cobolli, lo stabilizzarsi di Arnaldi e, perché no, qualche crescita che potrà arrivare nel corso dei prossimi anni. Senza contare, naturalmente, che rimane viva la speranza di vedere Bolelli e Vavassori ancora ad alti livelli in doppio per qualche anno, nonché lo stesso torinese anche una volta che il bolognese, per ragioni anagrafiche, smetterà. Per farla breve, non è che l’inizio di un ciclo.
In conclusione, è da rimarcare quello che sarà il futuro della Davis. Nel 2025 si tornerà, come detto, all’eliminazione diretta, e a quel paradosso per cui i tie preliminari saranno su cinque match mentre le fasi finali su tre. Un controsenso che si vede ormai dal 2019, per chi affronta le fasi preliminari (e l’Italia l’affronterà per la prima volta dal 2022). Oltre al turno di “esenzione” per l’Italia, ce ne saranno due (cioè partirà dalla fase finale, sotto determinate condizioni) per il Paese che ospiterà le Finals. Paese che, dopo il ritiro della candidatura di Valencia, travolta dai problemi legati all’alluvione, rischia di essere la Cina, unica candidata. Ora, la conclusione della Davis si ha subito dopo le ATP Finals a Torino. La distanza tra Torino e Zhuhai, la città che s’intende, è immaginabile.
E allora nasce il problema, al di là dei problemi rimanenti di una formula che ha cambiato faccia e volto diverse volte dalla riforma di Orlando: cosa ne sarà dei top player nel 2025? Qualora davvero si andasse in Cina, il problema potrebbe essere molto serio. E una piccola parte dello stesso l’ha evidenziato Volandri indirettamente, facendo capire come non ci sia la sicurezza di avere Sinner anche per le Finals 2025, qualora l’Italia si qualificasse (e, naturalmente, qualora altre vicende si risolvano in senso favorevole a Jannik). Si tratta di banali considerazioni logistiche, valide per il numero 1 del mondo come per chiunque partecipi alle ATP Finals. Cosa sarà di un altro nuovo corso della Davis lo si scoprirà a giorni.