Sono passati esattamente trent’anni da quando, nel 1994, a margine di una ministeriale a Bruxelles, il ministro belga socialista Elio Di Rupo rifiutò di stringere la mano al suo omologo italiano di allora, Pinuccio Tatarella, che era anche vicepremier del primo esecutivo in cui la destra era al governo. Il problema, sostenne Di Rupo per giustificare un gesto la cui eco fu enorme, non era l’uomo, ma la storia politica che rappresentava. In sostanza, Di Rupo accusava Tatarella di essere un erede del fascismo, incurante tanto di Fiuggi quanto del voto degli italiani che vollero An ai vertici del Paese. La sinistra di casa nostra ne trasse un certo compiacimento.
Tatarella non si scompose e lavorò per superare quello sgarbo, confermando le qualità umane e politiche che gli valsero il soprannome ancora oggi in uso nella memoria politica di “ministro dell’armonia”. Di Rupo ne uscì malamente, rimanendo invece nelle memorie politiche come l’uomo della mancata stretta di mano. Trent’anni dopo, di fronte a una nuova prima volta, vale a dire una vicepresidenza esecutiva dell’Ue assegnata a un uomo espressione della destra, Raffaele Fitto, i socialisti europei avevano l’occasione di dimostrare una conquistata maturità. Invece, si sono dimostrati ancora inchiodati ai loro pregiudizi ideologici. Di nuovo con la complicità della nostra sinistra.
Dopo le audizioni che avrebbero dovuto portare alla conferma dei vicepresidenti, anche di Fitto a sinistra è stato detto che il problema non era lui, riconosciuto come competente e abile, ma la sua appartenenza politica. Qualcuno, nella sinistra italiana, ha provato a mascherare il furore ideologico con la foglia di fico della maggioranza Ursula e degli equilibri in seno al Parlamento europeo. Altri, che non avevano il problema di giustificare una posizione contraria ai propri interessi nazionali, hanno serenamente rivendicato la politica del cordone sanitario. Trent’anni passati invano, mentre la destra portava avanti il suo percorso.
In Italia a sostegno di Fitto sono scesi in campo il presidente della Repubblica, padri riconosciuti nobili dalla sinistra come Prodi e Monti e le forze produttive del sistema Paese, avvertendo che una posizione di chiusura nei confronti del nostro vicepresidente esecutivo designato non era accettabile. In Europa è servita una partita a scacchi, complicata dalle spaccature interne alla Spagna, per venirne a capo ed evitare che i socialisti gettassero a mare l’intera Commissione per la loro impuntatura.
In quella partita a scacchi la destra italiana non ha sbagliato una mossa, portando a casa il risultato senza perdere se stessa. La sinistra ha invece ottenuto la conferma della propria vicepresidente uscendone piuttosto malconcia e aggrappata un tentativo di salvare la faccia con deboli lettere di intenti. Non è stato il frutto di circostanze avverse, ma di imperizia e arroganza. Perché a trent’anni dall’affaire Tatarella-Di Rupo i socialisti a tutte le latitudini sono ancora quella roba lì: ideologia, sussiego nelle rendite di posizione, convinzione di poter dettare le regole a dispetto della realtà, delle volontà degli elettori, degli interessi nazionali e, nel caso specifico, europei.
Lo hanno dimostrato in relazione alla formazione della Commissione, lo hanno confermato in relazione ai dossier: alla prima prova, il voto sulla deforestazione che ha messo insieme popolari e destra, si sono arroccati ancora di più, recriminando contro un cambio di maggioranza che, in realtà, è solo il frutto delle ordinarie dinamiche europee, dove le convergenze non sono fisse come nei parlamenti nazionali, ma si fanno e si disfano sui temi.
Ed è per questo che la partita vinta dalla destra su Fitto, la netta affermazione di questa Italia in Europa, anche al di là delle competenze specifiche ampiamente riconosciute al commissario, è un vantaggio prima di tutto per l’Ue. Perché dice che anche a Bruxelles si è davvero scansato il pericolo dell’immutabilità e, come del resto era stato ampiamente pronosticato, che con questa legislatura si è aperta una nuova strada, in cui a dettare il passo è la politica della capacità, della concretezza, della lucida lettura delle situazioni, non più quella nefasta dell’autoproclamata grazia ricevuta.
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