Sembrava un caso destinato a tornare alla polvere degli archivi giudiziari. Dopo 28 anni la Procura di Genova era convinta di aver risolto uno dei più famosi cold case italiani: l’omicidio di Nada Cella, 25enne segretaria di un commercialista di Chiavari, uccisa a coltellate nel 1996. Ma per il Tribunale non c’erano abbastanza prove per portare a processo la presunta autrice dell’omicidio, Annalucia Cecere, ex insegnante oggi residente a Boves (Cuneo), che nell’ipotesi dell’accusa ha assassinato la vittima perché accecata dalla gelosia. Sembrava finita. E invece, con un colpo di scena che si vede raramente nelle aule di giustizia, a riaprire tutto è stata la Corte d’Appello, a cui la Procura aveva fatto appello contro i “non luogo a procedere” decisi a marzo dalla gup Angela Nutini. Ieri i giudici hanno ribaltato i proscioglimenti e hanno deciso che il processo si farà. Tre i rinvii a giudizio: oltre a Cecere, ci sono Marco Soracco, commercialista datore di lavoro di Cella e a lungo unico sospettato della sua morte, e la madre di quest’ultimo, Marisa Bacchioni. I due sono accusati di favoreggiamento: secondo i pm hanno avuto sospetti, se non qualcosa in più, a proposito di Cecere, ma hanno deviato le attenzioni degli inquirenti da quella pista, sia nell’immediatezza dei fatti che dopo la riapertura delle indagini, decisa nel 2021.
La decisione della Corte non prevede motivazioni, ma è probabile che a convincere i giudici possa essere stata anche la rivalutazione complessiva degli elementi accusatori, rimessi in fila in una memoria dell’avvocato di parte civile Sabrina Franzone, legale della madre di Nada Cella, Silvana Smaniotto. Fin da subito le indagini della polizia si erano concentrate su un solo possibile assassino, Marco Soracco, che l’aveva trovata in un lago di sangue al suo ingresso in studio. Ma il nome di Annalucia Cecere, ex insegnante e conoscente di Soracco, era emerso già nei primi giorni dagli accertamenti condotti dai carabinieri. Almeno due testimoni l’avevano vista uscire trafelata dal palazzo teatro dell’omicidio: uno dei due aveva riferito di averla vista nascondere un oggetto nel motorino. I carabinieri intercettano la donna mentre stava già cercando un avvocato. La perquisiscono e a casa le trovano dei bottoni molto particolari, con base metallica incastonata, una stella a cinque punte e la scritta “Great Seal of the State of Oklahoma”. Hanno provenienza militare, ma si trovano anche in giacche vintage ai mercatini. Un bottone identico era stato trovato vicino al corpo di Nada Cella. Cosa succede a quel punto? Viene fatto un confronto, ma solo fotografico. Il bottone sul luogo dell’omicidio aveva un pezzo mancante, forse rotto durante la colluttazione, e la pista viene scartata. Tra Polizia e carabinieri c’è forte rivalità e il pm titolare delle indagini, Filippo Gebbia, sposa la tesi dei primi, definendo la nuova pista “fantasiosa“. Cecere, in modo singolare, resta indagata per appena quattro giorni e poi viene archiviata.
A riportare su di lei l’attenzione, molti anni più tardi, è una studentessa di un master in criminologia, Antonella Delfino Pesce. Riprende in mano il fascicolo Cella, è incuriosita dal fatto che sul luogo del delitto fosse stato trovato un dna femminile e nessuno l’avesse messo in connessione con l’unica indagata. Va a cercarla, scopre che è andata a vivere in Piemonte subito dopo il delitto, e dopo un primo confronto comincia a ricevere minacce (l’audio). Ma non è l’unico indizio che porta i pm a ritenere colpevole Cecere. La Procura raccoglie nella nuova indagine una ventina di nuovi testimoni. Uno di questi è ritenuto di assoluta importanza: si tratta di un frate, padre Lorenzo Zamperin, che all’epoca aveva raccolto delle confidenze da Marisa Bacchioni, madre di Soracco. Zamparin racconta ai magistrati che “la Bacchioni era a conoscenza che l’autrice dell’omicidio fosse una donna; proprio quella donna, a lei nota si era invaghita del figlio e non era gradita; la Bacchioni era stata invitata a tacere per il bene del figlio”. Da chi? “Sono certo che lei non si sia mai confessata totalmente con me in quanto qualcuno le aveva detto di mantenere il più assoluto riserbo sulla vicenda”, afferma il frate. “Ritengo che si riferisse ad altri prelati con cui lei si confidava, in quanto so che frequentava i Padri Scolopi e andava a messa in Cattedrale”.
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