Sinner ha trionfato, diventando il primo italiano della Storia a vincere le ATP Finals e finendo il 2024 da incontrastato numero 1 al mondo. Ma ammettiamolo, senza Novak Djokovic, ritiratosi per infortunio, le finali di Torino sono sembrate un torneo di tennis della Disney. A partire da Jannik il buono che è sempre pronto a condividere il proprio ombrello per riparare un raccattapalle dal sole o porgere una bottiglietta d’acqua per soccorrere uno spettatore che ha avuto un malore in tribuna, il tennis odierno, sempre più ricco e seguito, è avaro di bad boy, giocatori in grado di coniugare genio e sregolatezza: “mocciosi” irriverenti come John McEnroe, con le sue leggendarie sfuriate contro i giudici di sedia, avversari tosti e scorretti come Jimmy Connors, capace di cancellare con il piede il segno lasciato da una propria palla fuori (accadde contro Corrado Barazzutti agli US Open del 1977), o appunto dello stesso Djokovic, capace di mettersi contro il pubblico di un’intera arena e disposto a tutto, persino a interminabili pause in bagno, peraltro concesse dal regolamento, pur di distrarre l’avversario in pericoloso vantaggio e vincere (accadde a Wimbledon 2022, mentre Sinner vinceva per 2 set a 0, risultato poi ribaltato dal tennista serbo in 3 a 2 a proprio favore).
Ci è venuto in mente in questi giorni mentre seguivamo le ATP Finals e per due motivi: esce oggi al cinema Nasty, documentario che rievoca la carriera di Ilie Nastase, leggenda del tennis romeno e primo atleta a fregiarsi del titolo di numero 1 del neonato circuito professionista nel 1973. In quel film, che sarà al cinema fino al 20 novembre e poi troverete su qualche piattaforma di streaming, si descrive il tennis di un’altra epoca, enormemente più scorretto e “libero” rispetto a quello odierno: basti pensare che Nastase, uno che spaccava racchette, inveiva e litigava con i giudici di linea e di sedia, esibiva il dito medio, apostrofava i propri avversari con nomignoli oggi impensabili, come Negroni, riservato all’avversario di colore Arthur Ashe. “Non era razzismo, ma un modo di prendersi in giro, perché poi finita la partita eravamo amici e andavamo a far baldoria insieme”, ha dichiarato Nastase, che negli spogliatoi era chiamato il “Comunista”, prima di ottenere appunto il soprannome “Nasty” che in inglese vuol dire sgradevole.
Non ce ne voglia Sinner, campione dai colpi e dalla mentalità formidabili per cui facciamo tutti il tifo, e gli avversari che nei prossimi anni, una volta che Djokovic avrà abdicato, inizieranno a cercare di detronizzarlo, a partire da Carlos Alcaraz: il tennis di oggi ha disperatamente bisogno di qualche bad boy per portare un po’ di follia in campo dove i tennisti odierni sembrano sempre più degli automi, non soltanto per i movimenti dei loro corpi, ma anche per le scarse emozioni che traspaiono durante gli scambi. Ce ne siamo accorti a Torino dove Daniil Medvedev, uno che un tempo aspirava a entrare nel novero dei veri cattivi ma poi ha decisamente abbozzato, nel match perdente contro Taylor Fritz ha lanciato la racchetta in aria, l’ha distrutta, l’ha impugnata al rovescio, è stato fischiato sonoramente e poi, dopo avere vinto l’incontro successivo con Alex De Minaur, si è messo le mani alle orecchie, come a dire al pubblico “mi avete fischiato e ora andatevene a quel paese”, salvo poi dire che il suo gesto non era polemico. Roba da far venire tenerezza all’enfant terrible Fabio Fognini che nel 2019 a Wimbledon perse la testa e disse in campo senza vergogna: “Maledetti inglesi, dovrebbe scoppiare una bomba in questo circolo”. A Wimbledon.
Complice il fatto che i giudici di linea sono spariti, sostituiti da occhi di falco che non sbagliano mai la chiamata, sul campo non c’è ormai quasi più modo di prendersela con qualcuno tranne che con se stessi, e c’è rimasto giusto Andrey Rublev a tirarsi feroci racchettate sulle ginocchia e ogni tanto a dar di matto. Tutto il resto è noia, dichiarazioni depurate da quella cattiveria inespressa che dovrebbe derivare dall’agonismo esasperato tipico di uno sport senza contatto fisico, dove il principale nemico da battere è dentro di te, ed esemplificate dal soprannome che Carlos Alcaraz e gli altri hanno dato a Sinner, come dichiarato la scorsa settimana dal tennista spagnolo: “Carota”, invece che ne so di “Cyborg”, “Crucco” o qualsiasi altra bassezza riservata ad altri, come “Joker” (non un complimento) dato anni fa a Djokovic, a causa delle sue buffonate nell’imitare le movenze degli avversari, arricchite poi da un vasto arsenale di carinerie in campo.
A questo punto non resta che appellarsi a qualche nuova leva dell’Asse della Scorrettezza Politica (ce ne sono?) o aspettare il ritorno nel 2025, dopo quasi due anni di assenza, di Nick Kyrgios, talento sprecato ma vero fuoriclasse dei bad boy, capace di indimenticabili scenate in gara e unico a criticare apertamente Sinner per l’affaire doping sui social, dove di recente ha scritto: “Ogni giocatore battuto da Jannik Sinner deve aver pensato la stessa cosa. Questo stronzo non dovrebbe nemmeno essere in campo in questo momento”. La speranza è che Jannik, la cui camminata è stata definita “alla John Wayne” (Adriano Panatta dixit) regoli i conti in campo, magari agli Australian Open, e che magari durante quella partita un po’ di malsano show torni a condire il tennis di quei bravi ragazzi del tennis che non litigano quasi più.