Tre pagine appena, ma dense di significato. E riassumibili così: la legge sull’Autonomia differenziata, così come è stata approvata dal Parlamento, presenta dei profili di incostituzionalità: sette, per la precisione. Ma, nel suo complesso, non è un testo incostituzionale.
A dirlo è la Consulta, sollecitata a decidere sul ricorso presentato dalle Regioni Sardegna, Puglia, Toscana e Campania. I giudici si erano riuniti appena lunedì scorso e già ieri hanno anticipato il contenuto della decisione, con una nota diffusa nel tardo pomeriggio e consultabile nel nostro sito.
Una notizia dirompente, che, a una prima lettura, rischia, se non di compromettere, quantomeno di mortificare spavalderia e ambizioni autonomistiche della Lega. Ma anche una notizia che, per essere valutata nella sua interezza, deve aspettare la pubblicazione della sentenza: per capire se la decisione dei giudici è stata di rigetto tout court o – come sembra e, paradossalmente, sperano i leghisti – di accoglimento parziale.
In ogni caso, si complica l’iter della riforma-bandiera del Carroccio, azzoppata dalla sentenza della Corte Costituzionale. Perché adesso, per “ripristinare” la legge, bisognerà tornare in Parlamento. Con un emendamento da inserire in un decreto legge, ed è questa la soluzione-limite in cui sperano i leghisti.
O con un nuovo disegno di legge, che significa: nuova discussione, nuovi emendamenti, nuova votazione, ancora la Camera, poi il Senato.
I rilievi dei giudici riguardano sostanzialmente l’iter per l’approvazione delle materie Lep, delle quali comunque non si discuterà prima di due anni.
E quindi non è tanto l’attesa a preoccupare: la questione è soprattutto politica. I giochi sono tutti da rifare e, questa volta, l’esito è molto più incerto. Perché, di fronte ai rilievi dei giudici costituzionali, è chiaro che anche la maggioranza finora più tiepida verso il “sogno autonomistico” acquisirà molti più motivi per far valere le sue perplessità.
E l’attesa della sentenza si intreccia proprio con il nuovo iter legislativo. Perché una sentenza di parziale accoglimento del ricorso, appunto, aprirebbe le porte per una nuova legge. Ma questa, una volta approvata, sarebbe differente da quella ora in vigore e che è stata oggetto della raccolta firme per il referendum abrogativo.
Ecco allora paradosso e consolazione, a cui i leghisti si aggrappano con tutte le loro forze: tornare in Aula, per approvare un nuovo testo, sbarrerebbe la strada al referendum.
Andando al merito dei rilievi della Corte Costituzionale, per larga parte ruotano attorno allo stesso concetto: l’attuazione della legge, con la diramazione delle intese, non può essere appannaggio del governo, ma deve esserci il coinvolgimento delle Camere.
Per questo la Consulta giudica «incostituzionale» il fatto che sia un dpcm – e non un decreto legislativo o una legge ordinaria: gli atti normativi che, in modo differente, sono prerogativa del Parlamento – a determinare e ad aggiornare i Lep.
E per questo, dicono ancora i giudici costituzionali, la legge sull’Autonomia «non è di mera approvazione dell’intesa, alla “prendere o lasciare”», ma le Camere possono emendarla e, di conseguenza, «l’intesa può essere eventualmente rinegoziata».
È un punto centrale, che rischia di allungare i tempi per l’approvazione delle intese tra Stato e Regioni: una, per le materie non Lep; tante quante sono le materie, per quelle Lep.
E, a proposito dei livelli essenziali delle prestazioni, la Consulta precisa che, riguardo alle materie non Lep, i trasferimenti non potranno riguardano funzioni relative a diritti civili e sociali.
Quanto alla devoluzione, viene stabilita l’incostituzionalità del trasferimento di materie o ambiti di materie, poiché il passaggio della competenza dallo Stato alle Regioni – «in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla Costituzione»: è questo il fine del principio di sussidiarietà – deve riguardare soltanto specifiche funzioni.
Viene poi determinata l’incostituzionalità dell’estensione della legge alle Regioni a statuto speciale, che già possono contare sulle rispettive procedure statutarie.
Infine, c’è la sezione finanziaria.
E qui la Consulta stabilisce l’obbligo, in capo alle Regioni destinatarie della devoluzione, di partecipare agli obiettivi di finanza pubblica.
Poi, definisce incostituzionale la possibilità di modifica delle aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali, per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra fabbisogno di spesa e andamento del gettito: prassi che potrebbe premiare le Regioni inefficienti. E anche in questo caso la richiesta è di coinvolgimento del Parlamento: la compartecipazione ai tributi non può essere decisa esclusivamente dal governo.
Infine, viene stabilito che l’entità delle risorse da trasferire – nel rispetto del principio di invarianza finanziaria, da intendere nel senso più ampio possibile – debba essere determinato considerando costi e fabbisogni standard e criteri di efficienza, e non la spesa storica.
La Lega festeggia, il centrosinistra festeggia. È il gioco delle parti. Ma adesso c’è una legge da rifare, una coalizione da ricompattare. E la trama del film, questa volta, potrebbe essere diversa.
