«Un punto di non ritorno…un pericoloso precedente e un messaggio inquietante: guai a mettersi contro i potenti (quelli veri) perché questa è la fine che farete…Siamo tutti sotto attacco. In gioco c’è un intero Paese in balia e in ostaggio di un esperimento su vasta scala di regime fascista…Sappiano che non mi fermerò qui. Non finisce qui, non così, ve lo prometto e me lo prometto. Non l’ho mai fatto in tutta la mia vita. Non mi spaventerò certo ora».
Se qualcuno venuto da un tempo lontano si imbattesse in questo vibrante e appassionato proclama, penserebbe che il suo autore sia un eroico combattente trascinato in ceppi nelle patrie galere, dopo aver sguainato la spada a difesa del popolo vessato da un terribile tiranno. In realtà, chi scrive è Lorenzo Tosa, feticcio della sinistra da oltre 600mila like, che traduce in tragedia (di livello abbastanza scadente, a dire il vero) la soccombenza in un giudizio civile che lo ha visto condannato a corrispondere un risarcimento di 20mila euro per avere diffamato l’ambasciatore Mario Vattani.
Succede che nel 2021, anno primo dell’era gloriosa di Mario Draghi, all’indomani della nomina di Vattani ad ambasciatore d’Italia a Singapore, il coraggiosissimo Tosa indica una petizione online, per richiedere al Presidente Mattarella la revoca della nomina. A sostegno di tale pretesa, l’impavido giornalista adduce motivazioni che, a posteriori, il Tribunale di Genova ha definito «chiaro esempio di travisamento e manipolazione di uno specifico fatto storico…una distorsione rispetto all’intento informativo dell’opinione pubblica». Di qui l’ordine, in via cautelare, di rimuovere immediatamente il contenuto dalla piattaforma e la successiva condanna, giunta in settimana, al risarcimento del danno. La reazione?
Nel solco del miglior Saviano che, nell’immediatezza della sentenza del Tribunale di Roma che lo condannava per aver definito «bastarda» Giorgia Meloni, si disse onorato per «le proprie parole portate a giudizio perché il Capo del Governo le teme» definì il processo «un’intimidazione» e apostrofò l’esecutivo come una «banda che cerca continuamente di intimidire», anche Tosa la butta sul vittimismo. I potenti gli avrebbero impedito di svolgere la sua funzione di giornalista – che notoriamente consiste nell’indire petizioni per far revocare nomine a quelli che non piacciono alla gente che piace – violando l’art. 21 e la libertà di critica costituzionalmente garantita.
Critica che per Tosa, come per tutti quelli della sua scuderia, si sostanzia nello spacciare per verità incontestate le loro strampalate opinioni o, nel caso di Vattani, nel raccontare come realmente accaduti fatti di cui sentenze irrevocabili hanno attestato l’insussistenza. L’attacco deliberato alla reputazione e all’onore di una persona, nel mondo degli intellettuali di sinistra, diventa quindi esercizio di un diritto costituzionalmente garantito: io, autoproclamato latore della verità assoluta, ho il diritto di insultare, apostrofare con epiteti irripetibili, attribuire condotte e celebrare processi mediatici fondati sulle mie insindacabili opinioni. Semplicemente perché appartengo alla schiera dei giusti che tutto possono.
Di contro, la legittima pretesa di chi, diffamato, chiede di vedere tutelato il proprio buon nome ricorrendo alle autorità, diventa intimidazione, bieco tentativo di mettere a tacere l’intellettuale illuminato di turno e, ça va sans dire, pericoloso rigurgito del fascismo.
E se in giudizio dice male, c’è sempre il ricorso al piagnisteo, che paga più di mille risarcimenti: nell’epoca del vittimismo come stile di vita, infatti, niente è più remunerativo dell’autodichiararsi perseguitato. Ce lo insegnano la luminosa carriera di Roberto Saviano, professionista del riuscitissimo genere patetico-autocommiserativo noto come «io, mi vogliono imbavagliare», ma anche quel Luciano Canfora che prima va in giro a raccontare che Giorgia Meloni è una neonazista e poi fa la vittima proclamandosi urbi et orbi «accusato di un reato di opinione».
Delle due l’una: o costoro sono davvero convinti di combattere un nemico pericolosissimo, di essere perseguitati e di stare immolando se stessi all’altare della libertà oppure stanno solo cavalcando una redditizia caccia alle streghe, con la complicità di chi li segue adorante e acriticamente si abbevera alla loro fonte delle verità precostituite.
In questo strano mix di mitomania e malafede, intanto, proliferano capipopolo da tastiera e novelli messia del nulla che, travestiti da timidi agnelli petalosi, si dilettano a inquinare i pozzi, facendo, da bravi soldatini, il lavoro sporco al soldo, loro sì, dei committenti di turno.
Poi, però, quando il loro stesso giochino gli esplode in mano, piangono.
L'articolo Vittime o manipolatori? La sinistra moralista si autoproclama martire: ecco come funziona il loro gioco sembra essere il primo su Secolo d'Italia.