Un asilo per 30 bambini svenduto all’asta al prezzo di un appartamento da un centinaio di metri quadri. Padova infligge l’ennesima offesa alla memoria e alla generosità di uno tra i suoi cittadini più illustri, Vincenzo Stefano Breda, che morendo aveva lasciato il suo patrimonio alla comunità per dare vita a un asilo d’infanzia e un ospizio per anziani. Un lascito sperperato da un’amministrazione scellerata, senza che nessuno abbia pagato per questo autentico scempio.
Tutto comincia il 4 gennaio 1903, quando muore a Padova, all’età di 78 anni, Vincenzo Stefano Breda, uno dei maggiori imprenditori italiani dell’Ottocento.
Pochi giorni prima ha redatto un testamento olografo: con il quale, non avendo eredi diretti, ha lasciato quasi tutto il suo ingente patrimonio alla comunità padovana, attraverso un’apposita Fondazione volta a finanziare due realizzazioni, intitolate alla madre Angela e alla moglie Rosa Zannini, quest’ultima prematuramente scomparsa: un asilo e una casa di riposo. La motivazione di questo gesto è esemplare: «Avendo la mia esperienza dimostrato come le fortune create con l’onesto lavoro vadano spesso disperse, o per vizi o per l’imbecillità degli eredi, io ho pensato di lasciare molta parte delle mie sostanze a un Ente Morale».
Per sua espressa volontà, tale ente dovrà essere amministrato da tre “curatori pro tempore”, designati dal Comune di Padova.
Un anno dopo, il 2 febbraio 1905, un regio decreto firmato da Vittorio Emanuele III sancisce la nascita della Fondazione Breda, che inizia così la propria benemerita attività. Entrano a farne parte, oltre all’asilo e all’ospizio, anche una villa edificata a cavallo tra Seicento e Settecento dalla famiglia Contarini, acquistata e fatta ristrutturare da Breda, con la sua ricca collezione d’arte e l’arredamento, un ippodromo destinato a diventare famoso (Le Padovanelle), un parco; si aggiungeranno nel 1967 la Casa di soggiorno per anziani di Ponte di Brenta, e nel 2002 Casa Breda, struttura specializzata nella cura della sclerosi multipla e delle malattie neurologiche.
Primo presidente della Fondazione, in quel 1905, è Achille Breda (che rimarrà nella carica fino al 1934), affiancato in qualità di curatori da Gino Cittadella Vigodarzere e Giulio Cosma.
Vincenzo Stefano Breda abbina alle doti economiche un’elevata sensibilità sociale nutrita da un profondo amore per Padova: distribuisce sussidi e provvidenze anche a semplici sconosciuti, destina un contributo di 40mila lire per la costruzione degli Ossari di San Martino e Solferino, contribuisce con oltre 100mila lire alla ricostruzione del campanile di San Marco a Venezia dopo il crollo del luglio 1902, progetta e finanzia importanti opere nella basilica del Santo.
Ma il suo lascito principale è appunto quello dell’asilo per i bambini e della casa per gli anziani, che egli stesso ha fatto costruire, il primo nel 1885 e la seconda nel 1901.
Annota al riguardo Giorgio Roverato, storico dell’economia e profondo conoscitore di Vincenzo Stefano Breda: «Le risorse destinate inizialmente alla loro costruzione e al loro mantenimento, e poi per lungo tempo annualmente erogate dalla Fondazione, rientrano a pieno titolo in ciò che io intendo per filantropia del ceto industriale: non tanto una più o meno episodica elargizione – elemosina ai diseredati, quanto cosciente e progettuale restituzione alla comunità tutta dei benefici che l’imprenditore ha ricevuto nel suo operare all’interno della stessa; certo, celebrando il proprio nome, ma in una sorta di riconoscenza per l’ambiente che aveva favorito la sua ascesa sociale».
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È un’eredità che funziona alla grande per decenni, fino a che un’amministrazione a dir poco disinvolta la saccheggia: uno scandalo che viene alla luce a fine anni Novanta, portando infine alla liquidazione della Fondazione per stato irreversibile di insolvenza.
La magistratura individua e mette sotto processo tre imputati con accuse quali turbativa d’asta, truffa ai danni dello Stati e tentata corruzione; si parla anche di tangenti, e di terreni di alto valore venduti a società fantasma.
Due degli inquisiti vengono condannati a pene pesanti in primo grado, ma con sentenza stravolta in appello per motivi formali; il terzo e principale, segretario e direttore dell’ente, sottrattosi dopo un lungo braccio di ferro al giudizio, si salva grazie alla prescrizione.
Ma al di là del verdetto dei giudici, c’è un interrogativo di fondo che si pone d’obbligo: com’è stato possibile sfasciare un simile patrimonio, e soprattutto disperdere una così preziosa eredità, tradendo lo spirito di chi l’aveva trasmessa alla città? E perché alla fine nessuno ha pagato? Certo è che Vincenzo Stefano Breda è stato tradito nell’obiettivo che si era posto. Il suo nome rimane ora confinato nella stretta via a lui dedicata a lato di Piazza dei Frutti. Una vergogna. —