Di vecchi, ma non per vecchi. L’ennesimo grido di dolore che sale dalle Rsa, le residenze per anziani non autosufficienti, certifica che per l’Italia della politica il vasto popolo della terza età rimane invisibile, malgrado un’anagrafe che ne segnala ormai da decenni la costante crescita: 14 milioni sopra i 65 anni oggi, il 28 per cento della popolazione; 20 nel 2050, il 35 per cento. Con il punto critico dei tanti, sempre di più, che necessitano di assistenza: già oggi i non autosufficienti sono 3 milioni; saliranno a 5 nel 2030, cioè dopodomani.
Esemplare il caso veneto: 34 mila anziani nelle Rsa, altri 10 mila in lista d’attesa, malgrado il Nord Est sia al vertice per numero di posti-letto, 10 ogni mille abitanti contro i 3 del Sud.
Non lo scopriamo adesso. Istituite a fine anni Ottanta per garantire assistenza continua agli anziani non autonomi, le Rsa soffrono di una carenza cronica di posti letto: 19 ogni mille persone over 65 in Italia, terzultima nella graduatoria dei Paesi Ocse, dove la media è di 47 (peggio di noi solo Polonia e Turchia).
Il Covid ha messo ancor più in ginocchio un’offerta già carente di suo: se prima della pandemia le Rsa che avevano chiuso i conti in rosso erano appena il 9 per cento, oggi sono schizzate al 63. Al dato economico si aggiunge quello funzionale: negli organici, mancano all’appello il 22 per cento di infermieri, il 13 per cento di medici, l’11 per cento di operatori socio-sanitari.
E quelli che ci sono, operano in condizioni particolarmente pesanti: una ricerca della Bocconi segnala che in tre Rsa su quattro è cresciuto tra il personale il numero dei burn-out, cioè quelli che presentano stress persistente; in una parola secca, vicini a scoppiare.
Col risultato della fuga in massa verso il pubblico, che paga meglio e offre maggiori garanzie. Tutte cose che sappiamo da tempo, senza fare niente di decisivo per girare pagina davvero.
L’esempio più clamoroso è l’annunciata riforma degli Ipab, gli Istituti pubblici di assistenza e beneficenza, che gestiscono i servizi per gli anziani non autosufficienti. Dal 2001 sono passati in carico alle Regioni, ma la necessaria riforma dopo 23 anni rimane sulla carta (in Veneto sono stati sfornati una decina di progetti, finora senza esito); con il paradossale risultato che le Rsa continuano ad avere come riferimento la legge Crispi, del 1890!
Lo stato dell’arte a oggi, e ancor più le proiezioni demografiche sugli anziani nell’immediato futuro, spiegano tuttavia in modo inequivocabile che il problema non si risolve solo aumentando i posti-letto.
Gli ospiti delle Rsa sono sempre più vecchi e compromessi dal punto di vista sanitario; il personale è sempre meno disponibile tant’è che si parla di reclutamenti in massa dall’estero; le famiglie sono sempre più sole nell’assistere gli anziani e sempre più gravate economicamente; le risorse pubbliche rimangono irrisorie, a partire dalla decantata legge sulla non autosufficienza varata un anno e mezzo fa ma tuttora priva di fondi veri.
Occorre un nuovo e radicalmente diverso modello di assistenza, basato su politiche integrate tra territorio e strutture. Occorre, soprattutto, che lo Stato riconosca e tratti i milioni di anziani come suoi cittadini a pieno titolo. Non come uno scarto da smaltire. —