Cronaca di un disastro annunciato. Megalopolis è uno dei titoli più imbarazzanti di questo caotico nuovo millennio cinematografico e sarebbe stato tale anche quarant’anni fa quando Francis Ford Coppola iniziò a “progettarlo”. Sarà poi per il karma dei vigneti di famiglia immolati sull’altare della produzione, ma Megalopolis è oggi (e sarebbe stato comunque all’epoca) un film imbevuto di una tale trombonesca ambizione estetica, politica, drammaturgica da far impallidire l’irrimediabile caducità odierna di tanti anziani colleghi della New Hollywood.
L’ultima fatica coppoliana non ha del resto nulla di urgente o significativo da dire e non l’avrebbe avuto (o non lo avrebbe avuto allo stesso modo) quarant’anni fa in pieni anni ottanta, sfumata la giusta e clamorosa gloria, lo zeitgeist, di capolavori come Il Padrino, La conversazione, Apocalypse Now. Del resto per raccontare questo nulla (l’abisso morale statunitense? la più affannosa prosopopea metaforica sul potere?) bisogna condividere visivamente una New Rome – New York modello antica Roma – dai fasti imperiali decadenti. Che poi è una riconoscibilissima Manhattan con il Chrysler Building inquadrato fino all’esasperazione, piena di gente uscita ubriaca dai toga party con graziosi ornamenti significanti nel vestiario (i sandaletti, i collarini e le coroncine di alloro), il Madison Square Garden trasformato in un Colosseo dove ci sono gladiatori che paiono wrestler, corse con le bige di Ben Hur (!) e ricchi spettatori paganti in smoking che partecipano all’asta per la verginità di una cantante minorenne (!!).
A questa enfasi barocca, a questa ridondanza colta, pensandoci bene, Coppola non ne era esente nemmeno quarant’anni fa. Solo che all’epoca la logorroica tenebra brandiana, per dirne una, veniva perdonata anche solo per una Cavalcata delle Valchirie al napalm. Tornando alla New Rome di Megalopolis, a contrapporsi al regno del sindaco corrotto Franklyn Cicero (Giancarlo Esposito) c’è il protagonista del film, Cesar Catilina (Adam Driver). Architetto visionario, genio creativo incompreso – quando è sobrio e disintossicato – addirittura corrucciato e inquieto per via del dono ingestibile di fermare il tempo (sì proprio con il tasto pausa).
Cesar pensa ossessivamente, notte e giorno, all’irrealizzabile costruzione della metropoli utopica Megalopolis con un materiale speciale, il Megalon. Cicero e Cesar chiaramente si odiano, ma Julia (Nathalie Emmanuel), la figlia del sindaco, spariglia il conflitto innamorandosi, non proprio ricambiata, di Cesar. Quest’ultimo a sua volta fa coppia segreta tra lenzuola di raso con la giornalista arrivista Wow Platinum (Aubrey Plaza, l’unico vero personaggio voluttuoso e scandaloso uscito da un film di Paul Verhoeven). A sua volta la donna è ambita da Clodio (Shia LaBeouf) crudele e folle figlio di Crasso (Jon Voight) l’oramai rimbambito e volgare banchiere più ricco di New Rome.
Per gestire un tale intreccio che vede (si fa per dire) pure lo spreco di un paio di nomi come Dustin Hoffman e Jason Schwartzman modello ombre parlanti del sindaco, ci vorrebbe uno sceneggiatore fenomenale che chiaramente non è a libro paga. Così Megalopolis mette sul piatto il primo punto del suo disastro: la scrittura. Questo turbinante tentativo di pennellare archetipi infarciti di intere linee di dialogo shakespeariane (l’Amleto di Driver tra le travi dondolanti fa accapponare la pelle) o da Ovidio (un paio di scambi pure in latino!) crea un effetto ridondante e indigeribile su una parola che si svuota di spessore ed emotività e si fa veicolo di una bolsa retorica dimostrativa. Megalopolis oltre a non potersi sentire, francamente non si riesce nemmeno a guardare. Le targhe in pietra modello didascalie da cinema muto su cui Coppola fa affiggere massime su destini sociali e malvagità dei potenti, oltre alla voce interrogativa fuori campo del servitore di Cesar (Laurence Fishburne), inchiodano lo spettatore di fronte ad un acquario di figure blateranti continuamente fluttuanti, un fuori e dentro la scena che depotenzia pathos ed epica, arenandosi ad elefantiaco polpettone drammaturgico.
Basta seguire personaggi sfacciatamente sopra le righe da dotto teatro di prosa come il Clodio di LaBeouf, guitto stereotipato alla Riccardo III o il Crasso di Voight che nella sua delirante affaticata presenza offre un’erezione coperta dal lenzuolo quando invece si tratta di un minuto archetto (sic) da cui lancia dardi mortali verso figlio e amante. Secondo punto del disastro: l’immaginario scenico. Nella Megalopolis di Coppola vengono mischiati nella tinteggiatura vivida oro, grigio e magenta, lampi superati di retrofuturismo e colonnati in cartapesta da peplum. Un lavoro di ricostruzione tra reale e digitale da modernariato di seconda mano, letteralmente inavvicinabile nella pretesa di essere “originale”.
Terzo punto del disastro: la presenza fisico performativa degli attori. Passino i balzelli al ralenti tipo Matrix di Driver, ma in Megalopolis vige un’improvvisazione corporea tra residuati Fluxus e vetustà avanguardista da far perlomeno sorridere. Nel brainstorming dentro l’ufficio di Cesar i collaboratori dell’architetto si intrecciano modello piramide umana per una manciata di secondi che sembra interminabile. Megalopolis vive infine di questo continuo vano pomposo chiacchiericcio tra i corridoi del potere offrendo come contrappunto all’idea di una società futurista democratica funzionale pacificata pensata da Cesar, una rappresentazione non proprio egualitaria del popolino greve, lugubre e violento, che grida generica vendetta (e ci mancherebbe, visto che gli espropriano le case popolari per costruire Megalopolis) e si fa abbindolare da estemporanei tribuni. Insomma anche politicamente siamo tra il reazionarismo illuminato e il delirio autoritario. Qualcosa che assomiglia molto al principio autoriale della totale indipendenza creativa anche di fronte all’abisso. Basta però non lamentarsi perché poi non trovi i soldi per fare il prossimo film.
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