Si riaccendono i fanali sull’infinito cantiere della riforma pensionistica. Questa volta a fare da consulente del «direttore dei lavori» Giancarlo Giorgetti sarà Renato Brunetta, economista, già ministro con Silvio Berlusconi e con Mario Draghi, fuoruscito da Forza Italia nel 2022 e dal 20 aprile 2023 presidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel). Ed è proprio al Cnel che il governo Meloni ha affidato il compito di elaborare una proposta organica di riforma delle pensioni. Perciò Brunetta ha creato in febbraio un apposito gruppo di lavoro coordinato da Domenico Garofalo dell’Università di Bari e composto da altri nove esperti in materia previdenziale. Il frutto dei loro studi dovrebbe essere pronto entro la fine di settembre sotto forma di quattro documenti tecnici che saranno seguiti, ai primi di ottobre, da una proposta di disegno di legge. Una sfida da far tremare i polsi.
Minacciato dal calo demografico, indebolito da una serie di interventi più o meno demagogici per favorire le uscite anticipate e appesantito dagli sgravi contributivi, l’edificio previdenziale è pieno di crepe. Lo stesso Brunetta nel corso di un’audizione alla Commissione bicamerale di controllo sugli Enti di previdenza, tenutasi in dicembre, ha detto che «in mancanza di un riordino, il rischio di un collasso dell’intero sistema è verosimile, con una spesa stimata fino al 23 per cento del Pil attorno al 2030». Aver concesso per decenni pensioni non sostenute da un corrispondente gettito contributivo, ha aggiunto il presidente del Cnel, «sta alla radice non solo del disavanzo pensionistico ma anche di gran parte del debito pubblico». Come potrebbe essere disegnata la riforma del Cnel? Sono circolate alcune ipotesi, non confermate dal Consiglio che anzi ha negato l’esistenza di documenti ufficiali. Un antipasto l’ha fornito però Giuliano Cazzola, membro del gruppo di lavoro, secondo il quale «la stagione delle Quote è finita». Insomma, basta con le opzioni che consentono oggi di andare in pensione a 62 anni o anche prima. La proposta del Cnel dunque dovrebbe prevedere una nuova griglia di uscite anticipate dai 64 ai 72 anni, privilegiando il calcolo della future pensioni su base solo contributiva.
La soglia per il pensionamento di vecchiaia resterebbe a 67 anni ma con almeno 25 anni di contributi contro i 20 attuali. Sempre secondo le indiscrezioni, la pensione anticipata ordinaria non dovrebbe cambiare: 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini, un anno in meno per le donne. Oltre a proporre queste modifiche, che provocheranno qualche mal di pancia all’interno della maggioranza (ricordate Quota 41 promessa dalla Lega?) e parecchi fulmini all’indirizzo di Brunetta, il gruppo di lavoro dovrebbe fornire anche alcuni suggerimenti per far funzionare meglio la macchina della previdenza integrativa. A fine 2023, i lavoratori che dirottano parte del Trattamento di fine rapporto (Tfr) e versano contributi ai fondi erano 9,6 milioni, il 37 per cento soltanto del totale. Ancora troppo pochi. Il loro numero deve crescere perché solo così i lavoratori possono compensare l’assottigliarsi dell’assegno dell’Inps calcolato con il metodo contributivo e meno favorevole. Un problema che anche il governo ha ben presente, tanto che sta pensando di introdurre una nuova fase di «silenzio-assenso» da parte dei lavoratori per destinare automaticamente una parte del Tfr alla previdenza integrativa.
Intanto Alberto Brambilla, presidente del centro studi Itinerari previdenziali, propone di ridurre la tassazione sui fondi pensione dall’attuale 20 all’originale 11 per cento e di reintrodurre il fondo di garanzia per le piccole e medie imprese al fine di consentire anche ai circa sette milioni di lavoratori di disporre del Tfr che, essendo circolante interno, le aziende si rifiutano di indirizzare ai fondi pensione. Per Brambilla «la previdenza complementare è un tassello indispensabile per i giovani, per i meno giovani, perché completa la pensione, e anche per l’economia perché può dare delle grandi soddisfazioni di investimento». Ma alle prese con una spesa pensionistica che viaggia sopra i 300 miliardi di euro, il patto di stabilità che impone il progressivo rientro del deficit pubblico e un debito che sfiora i tremila miliardi, il governo è tentato di rimettere le mani nelle tasche di chi si è ritirato dal lavoro confermando anche per il prossimo anno un meccanismo di rivalutazione degli assegni particolarmente sfavorevole per gli importi medio-alti. Quindi, invece di tornare al meccanismo più favorevole, ossia quello per scaglioni, che prevedeva il recupero al 100 per cento dell’inflazione per le fasce di importo fino a quattro volte il trattamento minimo (ora a 614,77 euro al mese), al 90 per cento per le fasce di importo tra quattro e cinque volte il trattamento minimo e al 75 per cento per le fasce di importo oltre cinque volte il trattamento minimo, verrebbe riproposto un meccanismo che riduce l’adeguamento dell’inflazione sull’intero importo: per esempio, chi incassa un assegno pari a cinque volte il minimo si vede riconoscere solo il 53 per cento dell’aumento dei prezzi.
Un’ipotesi su cui il sindacato si prepara a dare battaglia. Avverte il segretario generale della Uilp Carmelo Barbagallo: «Si parla di nuovi e ulteriori tagli alla rivalutazione. Non è accettabile. In questo Paese, ogni volta che servono soldi si chiede sacrifici ai pensionati. È vero che l’inflazione quest’anno è molto più bassa degli anni passati, quando il taglio della rivalutazione ha portato una drastica riduzione del potere d’acquisto di chi percespisce un assegno, quindi il danno sarebbe minore. Come dico sempre però, i pensionati non sono ricchi ma sono in tanti. La tentazione di far cassa sulle loro spalle quindi è sempre forte». Nel frattempo le cause pilota che i sindacati hanno proposto contro la sforbiciata alla rivalutazione disposta dalla legge di bilancio 2023 stanno proseguendo il loro iter giudiziario. «Se l’ipotesi di questo nuovo taglio dovesse concretizzarsi ne potremmo proporne altre, come non escludiamo altre forme di mobilitazione» aggiunge Barbagallo.