Se possiamo permetterci, di Iddu, film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza in Concorso per il Leone d’Oro a Festival di Venezia, salviamo la sequenza in cui l’effige planetaria a figura intera di Matteo Messina Denaro con berretto bianco e montone, quella dell’arresto insomma, diventa reperto mummificato e museale sotto una teca, come fosse un pezzo imperituro di storia del paese. Sul resto, se possiamo di nuovo permetterci, la confusione sotto il cielo di Sicilia è tanta.
Dopo aver scontato sei anni di prigione a Cuneo per reati di mafia, Catello Palumbo (Toni Servillo), oramai ex preside, ex sindaco, ex assessore, ex consigliere, ex massone di un paese siciliano, torna a casa e diventa suo malgrado pedina dei Servizi Segreti per avvicinare il boss latitante Matteo (Elio Germano in modalità, appunto, Messina Denaro). Catello, tipica figura da tuttofare politico amministrativo locale della mafia, era vicinissimo al padre defunto del boss. I Servizi sperano così attraverso di lui di riuscire a scovare il criminale. Il boss però non sembra avere un buon ricordo di Catello e i Servizi oltretutto non sembrano proprio avere tutte le intenzioni di individuare Matteo per arrestarlo. A quel punto sarà la giovane ispettrice Mancuso (Daniela Marra) a ricattare Catello per intraprendere un rapporto epistolare con il criminale e fare finalmente giustizia.
Nonostante l’occasione d’oro di intraprendere un film prettamente “epistolare” di pizzetti e lettere, Iddu sembra un film continuamente spostato su mille registri del passato cinema di genere, e non solo, senza mai centrarne o sposarne uno. In primis il tentativo di un’astrazione grottesca della cronaca alla Petri (i contrappunti sonori alla Morricone ad esempio ci sono), ma subito dietro ecco stinte chiazze di noir per consentire la presenza della brutalità genetica del criminale, e soprattutto quel continuo registro comico paradossale che entra in campo ad ogni smorfia e camminata di Servillo e della sua crew familiare fino a macchiare tutti i soggetti in scena e quindi tutta le tela del quadro.
Se invece Iddu deve essere un film politico di denuncia, su come tutto cambia affinché nulla cambi, su come in fondo le teorie del complotto al cospetto degli intrighi mafiosi diventino sussidiari di verità, bisogna attendere un’ore e trequarti quando il redivivo colonnello dei carabinieri (Fausto Russo Alesi con accento veneto), coordinatore del pool antimafia dei Servizi, spiega all’idealista Mancuso che Matteo potevano agguantarlo da tempo ma se lo tengono lì a tiro in modo che a livello politico e sociale tutto continui a rimanere sul sempiterno storico “equilibrio”.
La cifra significante di Iddu, in fondo, è questa: di fronte ad uno squarcio realistico da brivido, su cui Damiani o Giordana ci avrebbero fatto subito due film roboanti da cassetta, subito segue una qualsiasi sequenza farsesca con Catello/Servillo, versione riporto color mogano, che si deve togliere le mutande e girare in tuta in mezzo a un canneto per incontrare Matteo. Dicevamo dell’overacting attoriale. Anche qui: o Iddu è un film che tiene nella scrittura e nella regia facendosi discorso autosufficiente a prescindere o parallelamente a chi va in scena oppure si lascia che chi va in scena metta il pilota automatico e trascini a sé l’attenzione. Non stiamo parlando di Germano, il cui boss vive nell’impenetrabile sguardo sotto gli occhiali da sole a goccia, tutto trattenuto a togliere enfasi; bensì di Servillo che quando non viene tenuto a bada sembra uno di quei cavalli imbizzarriti dei rodei che scalciano e distruggono mezzo ranch. Il soggetto è chiaramente tratto dal rapporto epistolare tra l’ex sindaco di Castelvetrano e il vero Messina Denaro, oramai pezzo di storia giudiziaria della mafia.
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