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Cosa possono fare scuola e società davanti all’inspiegabile

Scrivere sul massacro di Paderno è spiacevole, perché si tratta di una vicenda atroce e che toglie il fiato. Farlo senza risultare banali poi è difficilissimo. Eppure se c’è qualcosa su cui val la pena riflettere, da qualche parte bisogna cominciare.

La strage di Paderno ci mette di fronte a un fatto terribile che ha distrutto una famiglia, compreso l’omicida ancora in vita, e ha certamente minato un’intera comunità, serena nel suo anonimato fino a pochi giorni fa e ora travolta dal sangue, dallo sgomento, dall’inchiesta, dai giornali, dagli interrogativi collettivi e individuali.

Inoltre, questa volta non giungeranno notizie di abuso di sostanze, né di vite parallele nascoste, né di false identità, né di litigi sommersi, né di giochi online pericolosi, né di dipendenza alcuna: si tratta di un’assenza che rende l’episodio ancora più sconvolgente, perché un fatto così tremendo non porta con sé nessuno di questi elementi rassicuranti che potrebbero far pensare un esterno alla vicenda – quindi noi - che ciò che è capitato ha motivazione in abitudini, vicende, vizi, cose che non ci riguardano, che teniamo a bada, che sappiamo di dover controllare. No, questa volta non sembra che succederà: il non ancora diciottenne Riccardo, dal nulla, ha dato ascolto al suo disagio adolescenziale e con un coltello ha compiuto una strage da cui nessuno può più tornare indietro.

Ora, per le indagini ci sono le forze dell’ordine, per la giustizia i tribunali, per Riccardo intere equipe di psicologi che lo aiuteranno a fare i conti con la realtà, con sé stesso, con la verità; a noi, società civile, spetta la riflessione.

Cosa può fare la scuola, ad esempio, dinanzi a tutto ciò? Cosa può fare una comunità educante? Ecco, in poche parole: ascoltare, accogliere, moderare, proporre esempi, indicare cosa è corretto e cosa no, avere il coraggio di azzerare quegli aspetti tossici che, sommati uno all’altro, ci hanno portato a essere disposti a tutto per…soldi, averla vinta, affermarci, sfogarci, divertirci, non avere problemi.

La scuola, per iniziare, non è attrezzata all’ascolto. I docenti, impegnati nell’azione didattica e nello svolgimento del loro mestiere di insegnante, hanno sempre meno possibilità di interagire con studenti e famiglie, se non attraverso mail, comunicazioni digitali, PEC. Il dialogo ha lasciato spazio alla diffidenza, alla parola scritta e verbalizzata, alla forma asettica per evitare guai legali. Questo al netto del docente che si fa trovare e che c’è, ma è chiaro che un’azione educativa che dovrebbe riguardare milioni di studenti non può farsi forte della sola buona volontà del singolo che peraltro, accorciando le distanze, anche nel rispetto dei ruoli, ormai rischia fraintendimenti e malelingue.

La scuola è screditata, la relazione educativa è in crisi e questo, anche se non sembra mai essere nei pensieri di chi governa, di chi vota, di chi decide, è un aspetto cruciale per l’educazione pubblica.

A scuola servirebbe una rivoluzione dell’ascolto: alle superiori, ad esempio, dovrebbero esserci moltissimi psicologi, non uno per plesso scolastico come accade ora, e nemmeno il doppio, ma uno ogni due o tre sezioni. In questo modo – e solo così, senza compromessi! - studenti e professionisti inizierebbero un dialogo costante, e non sporadico o emergenziale, sempre più utile in un’età fragile, in un’era fragile.

Poi c’è la società. Non si tratta di incolpare la musica trap, una serie TV, un videogioco specifico, anche perché non c’è, nell’episodio di cronaca di Paderno come più in generale, uno e un solo colpevole: anche in questo caso, sarebbe semplicistico e rassicurante, ma non è così.

Ecco che uno sguardo complessivo ci consegna una società occidentale attuale artefice e vittima di una rete tossica in cui gli schermi proiettano violenza di ogni tipo (virtuale, reale, cinematografica, cronachistica, psicologica, sessuale…) così come ogni gesto risulta intriso di violenza: la risposta di un politico a una domanda, il grido allo stadio, l’urlata in videochiamata in smartworking, il gestaccio alla guida come modo di stare in auto, il litigio in coda perché gli altri sono sempre lenti, distratti, colpevoli di qualcosa. Certamente, a questo si aggiungono i testi violenti di certa musica, i modi aggressivi scambiati per personalità e carisma, il lessico cruento sdoganato perché quando ci vuole ci vuole, la possibilità che ognuno si dà per sfogarsi, per dire le cose come stanno, per la vendetta, per la rappresaglia, per la rivincita, per la rivalsa.

Se sessant’anni fa un ragazzo, in preda al suo disagio interiore, avrebbe potuto prendere la macchina di famiglia e uscire di notte, senza patente, a fare il giro della città – andando incontro a eventuali tragedie, sia chiaro – ecco che ora l’idea che salta in testa è quella di prendere un coltello e sterminare.

La società che viviamo, senza rendere aurea quella precedente, è certamente più cruda, più spigolosa più estrema.

La società in cui viviamo ha alzato l’asticella di ciò che è consentito e ora, con i telefoni cellulari stracolmi di fake news, finzione e realtà ormai indistinguibili, curve da stadio traboccanti d’odio, incidenti mortali ripresi e guardati sui social dai nostri figli, non possiamo che ritrovarci a vivere in quel futuro distopico tratteggiato dai narratori del passato.

Siamo ebbri di acqua inquinata alla sorgente e occorre ricominciare tutto da capo, con pazienza, iniziando magari dalla scuola con un investimento a lungo termine, perché risanare una sorgente inquinata è cosa ardua, lunga, mirabile, necessaria per sopravvivere. L’obiettivo sia quello di insegnare ed educare a vivere a ritmi più normali, al bello, scandalizzandosi invece dinanzi al dolore e all’ingiustizia, ma anche dinanzi al brutto e al disonesto, liberi dal sarcasmo e dalla ripicca.

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