L’eutanasia secondo Pedro Almodovar. Se nelle prossime ore The room next door, in Concorso al Festival di Venezia, non diventerà il film scandalo poco ci manca. Il primo titolo della carriera in lingua inglese del regista spagnolo, con il marchio Warner Bros a campeggiare in apertura, è un prezioso e monumentale duetto tra due attrici – Tilda Swinton (la reporter di guerra Martha) e la Julianne Moore (la scrittrice Ingrid) – sul desiderio estremo di togliersi la vita prima che lo faccia il cancro.
Ingrid durante un firmacopie scopre che l’amica che non vede da tempo è in una clinica, in condizioni serie, sottoposta a chemioterapia. L’incontro in ospedale tra le due fa prendere una scelta improvvisa a Martha: basta patire il dolore delle cure, meglio chiudere la propria esistenza con una pillola (acquistata nel dark web) con l’assistenza di Ingrid che le dovrà dormire accanto in una casa presa in affitto in mezzo a un bosco. Per capire quando Martha si sarà tolta la vita basterà verificare se la porta della sua stanza al risveglio sarà rimasta chiusa. Ora tocca a Ingrid decidere se assistere nel suicidio volontario la ritrovata amica.
Come in ogni film di Almodovar fin dal primo fotogramma siamo immersi in una tipica, tirata, densa atmosfera melò: accelerazioni, scatti e scarti improvvisi nelle scene, nei tagli di inquadratura (perlopiù mezzi busti), nei dialoghi; il commento musicale tutto archi hermanniani, avvolgenti e insinuanti dello storico collaboratore Alberto Iglesias; la centralità del racconto tutta orientata sulla passionalità profonda delle protagoniste. Solo che in The room next door a prendersi lo spazio più grande è la conflittualità latente tra vita e morte, tra scelta individuale e leggi pubbliche, tra cure palliative inefficaci e una pillola della morte.
Per una mezz’ora scarsa, tempo della decisione di Ingrid, Almodovar apre e chiude rapidamente alcuni flashback del passato delle protagoniste (dove si scopre la figlia che Martha non ha mai accudito da vicino), concede un po’ di respiro alle due con l’apparizione defilata di un amico comune (John Turturro) per poi portarci in una splendida magione modello Frank Lloyd Wright. Interni levigati e luminosi, cesti di frutta flamboyant sui tavoli, tinte accese per tenere lontano la commozione e il dolore che arriveranno, The room next door è un treno in corsa senza alcun freno tirato che va a conficcarsi nel cuore dello spettatore. A riempire lo schermo, la storia, il dramma, sono loro due: Swinton e Moore, Moore e Swinton.
Difficile schiodarsi da un turbine interpretativo siffatto, come da una direzione d’attrici che nella sua brillante, efficace, totale naturalezza diventa una sorta di manuale della mimesi. Certo, il contesto borghese può indurre nella tentazione di scartare l’affondo etico, la scelta estrema posta come dato da condividere (o rifiutare). Eppure nel cinema di Almodovar, magari non in tutti i suoi film, c’è questo nucleo ribollente di sensazioni e situazioni basiche che sanno di universalità oltre censo e posa. Insomma, prendere o lasciare. Tanti i riferimenti al cinema, anche nei propri dispositivi esibiti, un po’ retro: su tutti il dvd di Gente di Dublino di John Huston fatto partire sulla tv con un vecchio lettore, oltre che ai versi finali del romanzo di Joyce stesso che paradossalmente sembra nato apposta per apparire in The room next door.
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