Il più esplicito appoggio a Donald Trump è arrivato lo scorso 24 luglio dall’icona del country Brian Kelley con un brano apparso contemporaneamente su tutte le piattaforme streaming e social. Basta il titolo: Make America Great Again. Un inno, antitetico per sonorità e contenuti a Freedom, la canzone di Beyoncé che accompagna tutte le uscite elettorali di Kamala Harris e Tim Walz. Conta la musica nella campagna presidenziale americana e tutti gli attori in gioco ne sono ben consapevoli. Per questo le star si schierano, mettono a disposizione le loro canzoni e il loro tempo per partecipare agli eventi elettorali. Allo stato attuale, le posizioni appaiono chiare: il mondo del rock e del pop è totalmente schierato con la Harris, mentre i grandi nomi del country, del bluegrass e del folk sono in buona parte sostenitori di Donald Trump. Quello dell’establishment mainstream di generi come rock rap e pop, è da sempre un campo minato per i candidati conservatori.
Un istante dopo l’ufficializzazione della sua candidatura, la Harris si è trovata di fianco Katy Perry, Ariana Grande, Demi Lovato, Barbra Streisand, John Legend, Carole King, Meghan Thee Stallion e Cardi B. Il peso del fattore musica nella campagna dell’ex governatrice della California si intuisce dalla cura maniacale con cui il suo staff sceglie la colonna sonora degli eventi pubblici. Come la famosissima, negli States, Not Like Us di Kendrick Lamar, un dissing (presa in giro a colpi di rima) al vetriolo nei confronti del collega rapper Drake. Alla candidata democratica piace farsi vedere «into the music», e non da oggi. Nel 2023 ha partecipato attivamente alle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dell’hip hop, e uno dei suoi video più virali in rete la immortala all’uscita di un negozio di vinili mentre mostra orgogliosa album di Ella Fitzgerald, Louis Armstrong e Charlie Parker.
Le celebrità che appoggiano la Harris hanno una fama internazionale enorme rispetto ai musicisti pro-Trump, però sarebbe ingenuo non tenere conto del fatto che quella che si gioca il 5 novembre è una partita tutta americana e che nell’America profonda, quella che in gran parte appoggia The Donald, l’opinione delle star del country conta molto, moltissimo. Da noi quasi nessuno sa chi sia, ma Jason Aldean, classe 1977, nato in Georgia e trasferitosi giovanissimo a Nashville è uno che vende milioni di dischi dal 2005 e che si è fatto immortalare con l’ex presidente a Mar-A-Lago e poi alla Convention nazionale repubblicana. Dopo l’attentato dello scorso luglio, Aldean ha postato una foto del suo candidato ancora sanguinante con il pugno alzato in segno di sfida e una didascalia: «Questo è un vero guerriero. Questo è il mio uomo». Lo stesso ragionamento vale rispetto al peso elettorale di un personaggio come Kid Rock tornato di recente nelle zone alte delle classifiche americane con American Bad Ass, il pezzo che ha suonato dal vivo sul palco dei repubblicani a Milwaukee.
Il flirt tra il country e i conservatori a stelle e strisce non è una liason recente. All’inizio degli anni Settanta, nel pieno del flower power, gli artisti di Nashville e degli Stati del Sud abbandonarono la loro tradizionale equidistanza rispetto alla politica e si schierarono apertamente con Richard Nixon (che nel 1972 stravinse lasciando al rivale democratico, George McGovern, solo lo Stato di Washington e il Massachusetts). A celebrare quell’avvicinamento un album compilation, diventato un pezzo di storia della musica americana, intitolato Thank You Mr. President. Il cambio di prospettiva del mondo country prese il via grazie a una canzone del 1969 intonata da un countryman tutto d’un pezzo, Merle Haggard, e intitolata Okie from Muskogee.
Muskogee, cittadina con meno di quarantamila abitanti, persa nel cuore dell’Ohio, grazie a quel pezzo divenne il simbolo della White America che si opponeva alla controcultura hippie. Queste le prime strofe del brano: «We don’t smoke marijuana in Muskogee, We don’t take no trips on LSD... We don’t let our hair grow long and shaggy like the hippies out in San Francisco do... » (A Muskogee non fumiamo marijuana, non ci facciamo di Lsd e non portiamo i capelli lunghi come gli hippie di San Francisco, ndr).
Contano sicuramente gli schieramenti degli artisti, ma fino a un certo punto: Hillary Clinton è stata clamorosamente sconfitta proprio da Donald Trump nel 2016 quando lo stato maggiore del rock e del pop si era speso, forse come mai prima, per portarla alla Casa Bianca: da Bruce Springsteen a Lady Gaga, passando per Bon Jovi. Eppure... Ben altro riscontro ha avuto il ticket Springsteen-Obama (eletto per due volte) diventato anche un best seller in libreria con Renegades - Born in the Usa (Garzanti), una conversazione tra i due con racconti esclusivi sulla vita e sull’America, terra ricca di opportunità e contraddizioni. Del gioco degli abbinamenti tra futuri presidenti e musica fanno poi parte anche le dispute legali e i divieti relativi alle canzoni. Trump ha fatto infuriare i Rolling Stones per l’utilizzo di You Can’t Always Get What You Want, Céline Dion (My Heart Will Go On, la canzone del Titanic) e Neil Young (Rockin’ in the Free World), Bruce Springsteen intimò a Ronald Reagan di non aprire i suoi comizi con Born in the U.S.A., Tom Petty chiedette fermamente a George W. Bush di non usare la sua I Won’t Back Down prima di parlare in pubblico. Anche Cindy Lauper non la prese benissimo quando i democratici si appropriarono della sua True Colors per uno spot contro il senatore repubblicano Mitt Romney. Fin qui il passato.
Ora sulle elezioni di novembre, aleggia il fattore Taylor Swift (nel 2020 ha sostenuto il ticket Biden-Harris) che oggi gode di una popolarità senza precedenti. Non si è ancora espressa ufficialmente. Nell’attesa i media e gli istituti di sondaggi si sbizzarriscono nelle previsioni.