Eccolo qua. Il film queer a cui pagare dazio a prescindere. El Jockey/Kill the Jockey, diretto dall’argentino Luis Ortega, in Concorso per il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, è il solito affresco stilistico sui generis con la mala e i gangster (Cannes ne sa qualcosa) per accompagnare l’oramai plateale tematica dell’identità (confusa) di genere. In un sordido bar di Buenos Aires gli emissari strambi di un gangster che punta pesante sulle gare di galoppo viene recuperato l’intontito, drogato, autodistruttivo fantino Remo Manfredini (Nahuel Perez Biscayart) e portato all’ippodromo per compiere il suo dovere “sportivo”.
Lui e la compagna Abril (Ursula Corbero, la Tokyo di La casa di carta), anche lei fantina, devono prestare la propria opera professionale al criminale per appianare, pare, dei debiti. Abril comunque è incinta di Remo e nonostante sia un manico del galoppo pure lei, non sa se portare avanti la gravidanza. Intanto Remo, in quella che sembra la gara più importante del secolo, corsa in groppa ad un nuovo cavallo giapponese (Mishima, sic), parte a razzo, stacca tutti, ma va dritto oltre l’anello della pista sbragando il muro di cinta e finendo contro il traffico dell’autostrada adiacente. In ospedale mezzo morente, Remo fugge ma prima modifica la sua identità, travestendosi con abiti e trucchi femminili. Finirà in galera, diventerà donna e parrucchiera per i detenuti, e poi tornerà (momentaneamente?) uomo per correre privatamente al soldo del buzzurro direttore del carcere, altro appassionato di corse clandestine tra cavalli auto e levrieri.
Attenzione però, El Jockey si srotola attorno a registri narrativi e stilistici bizzarri e surreali perennemente sopra le righe, come se parole, immagini (e musica) di Ortega fossero precipitati da un viadotto dove hanno fatto un frontale i film di Sorrentino, i silenzi dei film di Kaurismaki e la buonanima di Bunuel (la formichina, Luis, la formichina).
Superato questo estenuante cocktail di eccentricità, arriviamo al sodo della questione. Perché Remo, nella sua scavata e sottile silhouette si presta chiaramente ad un discorso trasformativo sulla propria identità di genere che non è soltanto una pacchiana carrellata di umorismo forzato da serata drag queen (“io sono nata da me stessa”; “sei tu la tua signora”), ma un vero e proprio manifestino trafelato e colorato sulla fluidità che sfocia persino in una sorprendente maternità (di neonati senza mamme il film pullula). Ahinoi, qui però si pesca male. Perché siamo dei tradizionalisti sul macro tema, modello Brokeback Mountain, La vita di Adele, Il mondo secondo Garp o Orlando di Sally Potter. Tutto cinema che prima ancora del contenuto inatteso, si premura di costruire basi salde e coerenti di scrittura, regia e messa in scena per poi esporre il proprio spiazzante discorso. Modus operandi che in El Jockey, va scritto senza troppe reticenze, non si sa cosa sia. Nella prima mezz’ora, infine, le insignificanti scenette stracult abbondano come coriandoli ad una festa di carnevale. Su tutte quella delle fantine belle, agili e atletiche che negli spogliatoi fanno esercizi e ballano al ritmo della disco.
L'articolo Festival di Venezia – El Jockey, il film queer con la Tokyo della Casa di carta che non si sa cosa sia proviene da Il Fatto Quotidiano.