Qualche giorno fa la sede del Corriere fiorentino e l’abitazione del suo giornalista Simone Innocenti sono stati oggetto di perquisizione per un articolo su una vicenda amara e scabrosa. Si tratta del suicidio avvenuto lo scorso marzo della carabiniera Beatrice Belcuore, a causa -aveva denunciato la famiglia- delle vessazioni subite nella Scuola per allievi e marescialli.
Di che si tratta? Rivelazione di segreti di ufficio? Sembra assurdo che si sia ancora a questo punto. Al riguardo vi è, oltre alle prese di posizione delle organizzazioni sindacali, un’interrogazione parlamentare rivolta alla Commissione di un bel gruppo di parlamentari di Strasburgo, a partire dalla vicepresidente Pina Picierno.
Tra l’altro, fa giurisprudenza la sentenza del 2018 della Corte di Cassazione su un’omologa vicenda che colpì Marco Lillo del Fatto quotidiano. I giudici ordinarono di restituire tutto quello che era stato sequestrato, vietando di trattenere le copie dei dati acquisiti.
Non solo. Esiste ormai una vasta e chiarissima letteratura nel e del contesto europeo, che supera con nettezza simili pratiche: si legga, al riguardo, il comma 3b dell’articolo 4 dell’European Media Freedom Act. E si consultino le decisioni della Corte Europea per i Diritti umani o della stessa Corte costituzionale italiana.
Per di più, vi è un flusso univoco sulla materia della libertà di informazione e di cronaca. Basti pensare al Documento di Bruxelles (quello che ha irritato Giorgia Meloni) sullo stato di diritto, ai contributi univoci del Consiglio d’Europa, nonché del Media Freedom Rapid Response o dell’European University Institute redattoinsieme al Robert Schuman Centre for Advanced Studies.
Il capitolo cruciale del diritto dei diritti è salito finalmente nelle priorità dell’agenda.
Come mai, quindi, accadono vicende come quella di Firenze, su cui ha alzato la voce anche l’Ordine professionale?
La risposta è elementare, per citare il famoso investigatore. Il clima culturale è profondamente cambiato. Intendiamoci. Non che le cose andassero benissimo pure in precedenza. Ma la parabola negativa ha aumentato velocità e potenza.
L’ accurata pubblicazione proprio dell’Ordine «Informazione e giustizia» passa in rassegna i punti dolorosi che incidono sull’autonomia e sull’indipendenza di coloro che operano nel sistema mediale.
Si va dal D.Lgs del 2021 (decreto Cartabia) che limita la conoscenza dei procedimenti penali e dall’ampliamento del cosiddetto diritto all’oblio (con discutibili automatismi una storia viene deindicizzata), alla pericolosa permanenza nell’ordinamento del reato della diffamazione con inclusa pena del carcere, al ricorso abnorme al ricatto delle querele temerarie, ai vincoli posti all’utilizzo delle intercettazioni e alle costanti minacce verso chi mette il naso in faccende di potere, all’oscuramento dei nomi e delle sentenze, alla corretta rappresentazione delle materie giudiziarie in televisione. E altro ancora.
Giornalismo di inchiesta e attività della magistratura sono nel mirino di una destra che mira alla manomissione degli aspetti essenziali della Carta antifascista. L’occupazione spavalda di una significativa parte dei mezzi di comunicazione è funzionale ad interferire nelle stesse prossime scadenze referendarie sul lavoro e sull’autonomia differenziata.
Tutto ciò scalda i motori per preparare l’appuntamento cruciale della controriforma del premierato.
Ecco, allora, che l’episodio di Firenze non va relegato ad una veniale patologia, mentre è una traccia di un clima che si erge a tendenza generale.
Colpirne uno per educarne cento, al solito. Sono prove tecniche, come si usa dire, di regime.
Naturalmente, vale il rovescio. Comincia ad essere evidente che l’aria serena del governo si è increspata. Forse, mettendo insieme tanti sintomi, è legittimo pensare che sia iniziata la parabola discendente di una destra incapace di recidere i legami con il passato e alla ricerca spasmodica di momenti identitari.
Le iniziative europee, soprattutto per la pluralità di fonti e voci, non possono rimanere chiusi nei cassetti.
È il momento di fare rumore. Molto e sul serio.
L'articolo Perché in Italia siamo alle prove tecniche di stato di polizia proviene da Globalist.it.