«Non è giusto». Angela Carini lo ha ripetuto più volte nel labiale sul ring e nelle sue interviste: senza indugiare su questioni politiche o sulla guerra ideologica aperta dal match della discordia contro Imane Khelif, l’algerina con cromosomi XY, quelli degli uomini, affetta (pare) da un iperandrogenismo che le modifica in maniera significativa i livelli di testosterone. La pugile italiana si è ritrovata al centro di un vortice di polemiche e dichiarazioni, non tutte necessarie, passando da paladina dei diritti delle donne sul ring a piagnona con la candidatura a destra già in tasca, dopo il suo plateale ritiro dall’incontro contro Imane.
Il solito corto circuito sulla pelle dei più deboli, in questo caso gli atleti e le atlete: pur di affermare il principio regolatore, e livellatore, dell’inclusione si passa sopra a tutto, anche alla salute e alle possibili, terribili, conseguenze di un combattimento ad armi “non pari”. «La Khelif dal punto di vista fisico ha avuto un vantaggio innegabile», ma secondo l’associazione Amigay aps «l’inclusione è più importante di una differenza fisica lieve». Capito? In questa frase del presidente di uno dei pensatoi LGBT ci sono ipocrisie in serie, oltre a una spietata logica di marketing ideologico.
Poco importa se l’avversaria venga messa a rischio salendo su un ring in un match cromosomicamente “uomo contro donna”, perché una «lieve differenza (sic)» non può compromettere la battaglia per l’inclusione senza se e senza ma; poco importa se la stessa Imane venga sottoposta a un trattamento ignobile, trasformando la sua patologia in un esperimento sociologico e lei stessa nel “fenomeno da baraccone” che non è. L’ideologia dell’inclusione e del politicamente corretto val bene questa caciara giocata sul corpo delle donne.
No, non è giusto. Angela Carini ha detto solo questo, in fondo; non ne ha fatto, lei, un argomento da talk show: ha solo rimarcato come, da atleta, abbia sacrificato ogni momento della propria vita per salire su quel maledetto ring, pensando che la competizione, ad armi pari, dovesse premiare la più brava, la più allenata, quella più capace a tenere la guardia alta, a colpire più forte, a schivare meglio. Invece si è ritrovata in mezzo a una guerra senza esclusione di colpi, anche mediatici, fra la Federazione internazionale della boxe e il CIO, in una grottesca gara tra presunti conservatori e presunti progressisti, nella quale è mancato il rispetto per l’atleta: quel senso di giustizia ancestrale di accettazione delle regole, scritte dalla natura, per le quali non si sale su un ring quando la sproporzione è dettata da evidenti differenze genetiche.
Angela Carini i pugni li ha presi ben prima di salire sul quadrato e riceverne uno, forte, da Imane. Gli stessi pugni che hanno ferito il buon senso e hanno ridotto anche la nobile arte in un teatrino per maestrini e maestrine al di sopra del bene e del male, per i quali gli sbalzi di testosterone che potrebbero far diventare Imane, suo malgrado, letale per una avversaria donna, sono derubricabili a una “differenza fisica lieve”. Inclusione, la chiamano. Anche a costo di massacrare Angela e Imane, vittime sacrificali designate.
La Carini è diventata una “teatrante” nelle dichiarazioni a mezzo social dei “buoni”: eppure anche l’arcigna Svetlana Kamenova Staneva si è rifiutata di congratularsi con la pugile iperandrogina Lin Yu Ting dopo essere stata sconfitta sul ring, mostrando al pubblico due volte il segno X, con riferimento ai cromosomi femminili, e dimostrando che non è stato un capriccio dell’Italiana, ma un nervo scopertissimo e un problema reale di equità. Non è giusto, Angela, hai ragione tu. Salgano loro su quel ring la prossima volta, magari capiranno cosa significhino lo sport, il sacrificio, il rispetto delle regole, le regole non scritte del combattimento. No, cosi non è davvero giusto.
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