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Rock’n’roll shit. America tra sogno e realtà

Super appassionato di musica e soprattutto di cultura popolare americana, Luca Vitali è un valente fotografo e ha il Dna del viandante d’altri tempi, armato di curiosità e voglia di apprendere.

L'articolo Rock’n’roll shit. America tra sogno e realtà proviene da Globalist.it.

di Rock Reynolds

Ci vogliono coraggio, entusiasmo e pure un pizzico di sana incoscienza per affrontare un progetto come quello che vi illustro oggi. Rock’n’Roll Shit (Rossini Editore, pagg 271, euro 17,99) di Luca Vitali ha uno strano sottotitolo: “Il filosofo del chiaro di luna”. Super appassionato di musica e soprattutto di cultura popolare americana, Luca Vitali è un valente fotografo e ha il DNA del viandante d’altri tempi, armato di curiosità e voglia di apprendere. Ed è con questo atteggiamento che ha visitato gli Stati Uniti in svariate occasioni, riempiendo la sua sacca da viaggio di considerazioni, suggestioni, emozioni e informazioni che, nel corso del tempo, si sono mischiate finendo per plasmare ciò che oggi ha forma piena. Rock’n’Roll Shit è la materializzazione di un sogno: quello di raccontare l’America che Luca ha imparato a conoscere e amare e farlo attraverso un’opera composita e multimediale: un romanzo che è al tempo stesso libro di viaggio e storia di formazione e un CD che mette insieme una serie di vecchie e nuove conoscenze del rock e che fa da perfetta colonna sonora per le immagini seducenti della narrazione, tra honky tonk, cuori spezzati, deserti infiniti, birre rancide, band scalcinate e automobili smarmittate. Il CD è farina del sacco di Luca Vitali, insieme a Ugo Cattabiani e ad Alessandro Casappa, ed è stato inciso in vari studi, avvalendosi del contributo di Jono Manson, Graziano Romani ed Edward Abbiati, tra gli altri. Sarà un viaggio lungo e succulento, tra località che respirano rock’n’roll quasi per definizione, come l’isolata Terlingua nell’angolo sudoccidentale del Texas, una sorta di cimitero degli elefanti umani. Perché nell’America di Rock’n’Roll Shit “finisce non solo la strada… finisce qualsiasi cosa”.

Ma è lo stesso Vitali a spiegarci meglio cosa lo ha animato.

Come le è venuto in mente di affrontare questo progetto articolato?

«Semplice: mi ci hanno costretto! Negli anni avevo messo da parte un po’ di materiale che riguardava luoghi, personaggi, situazioni. Come è normale che sia qualche persona amica aveva avuto modo di leggere questi scritti e quindi… mi ci hanno costretto! Una volta convinto di dovermi mettere a scrivere seriamente pagine e pagine nuove – felice però di riuscire a utilizzare anche tutto il materiale messo da parte, ovviamente adattandolo, non ho buttato niente – ho immediatamente pensato di affiancare al testo anche un disco. Io non ho mai avuto la pazienza di provare a imparare a suonare qualcosa, anche se la mia simpatia maggiore è per il contrabbasso: mi piace il suo suono caldo, mi fa venire in mente tutte quelle band di western swing o rock’n’roll degli anni Quaranta e Cinquanta. Quindi non sono un musicista, però facendo per anni il fotografo ai concerti ho avuto modo di conoscerne a centinaia e avevo ben chiaro dove e quali musicisti cercare, ma la scelta più importante è stata quella dei collaboratori per la scrittura dei pezzi.»

Ci spiega la scelta del titolo.

«Non c’è nessun problema di effetto spoiler, visto che già nel secondo capitolo viene spiegato. In realtà il titolo risale ai primi anni 2000, forse il 2005, ma non ricordo esattamente. All’epoca andavo tutti gli anni come fotografo accreditato al South by Southwest, incredibile festival di Austin capace di portare in città per una settimana scarsa più di mille band da tutto il mondo e decine di migliaia di appassionati e di operatori del settore musicale. Bisogna allora provare a immaginare in che condizioni potessero essere, vista l’affluenza, i servizi igienici – nome poco rock’n’roll, lo so – dei vari locali di musica dal vivo. Il mio compagno di quelle scorribande in Texas era Mauro Eufrosini, che si dedicava agli articoli. Una sera, o più probabilmente era notte fonda, mentre attraversavamo in macchina il caos della città capitale mondiale della musica dal vivo, gli buttai lì l’idea, in realtà una boutade, uno scherzo: “io e te dovremmo fare un libro sui cessi dei locali di Austin, io le foto e tu i testi”. Assicuro che non avevano niente da invidiare a quelli del celebre (celebre anche proprio per questo motivo) CBGB’s di New York. Ecco, essendo solo una battuta la cosa finì lì, ma visto che, come dicevo prima, non butto mai via niente, l’idea è tornata buona per il romanzo. A dirla tutta Rock’n’Roll Shit era il titolo di lavorazione, poi pensai a Il Filosofo del Chiaro di Luna, poi li tenni entrambi.»

Da quant’è che si sente scrittore oltre che viaggiatore?

«Non ho modo di accertarlo perché purtroppo non sono più in contatto con loro, ma se i miei compagni delle elementari sapessero che ho scritto un romanzo, ebbene, sono sicuro che nessuno sarebbe particolarmente stupito. Già allora scrivevo cose lunghissime che mescolavano Salgari, Verne e tutto ciò che riportava all’avventura in posti esotici. Poi la mia vita ha preso più di una strada, per riportarmi alla scrittura adesso, anche se negli anni, collaborando con varie riviste del settore musicale, ero stato impegnato in recensioni di concerti e dischi. Ma mi sono sempre sentito uno scrittore prestato alla fotografia e, a quanto mi dicono, scrivo molto per immagini. Evidentemente le due cose convivono in me in modo molto naturale e per niente conflittuale.»

Il suo libro ha qualche sfumatura autobiografica. Cose le interessava raccontare?

«C’è qualcosa di più di qualche sfumatura autobiografica: ci sono dentro oltre 25 anni di viaggi negli States. Ma, nonostante alcune somiglianze, io non sono Fotografo, il protagonista. Qualsiasi strada avesse preso ciò che stavo scrivendo, avrebbe comunque dovuto essere un omaggio (anche critico) agli Stati Uniti e a tutti i miei viaggi. Avrebbe potuto essere una sorta di diario di viaggio o una specie di guida, volevo parlare dei paesaggi, ma anche delle cittadine della provincia, senza tralasciare la musica (e fotografia, cinema, letteratura, pittura); nello stesso tempo volevo sottolineare tanti aspetti della vita americana (e messicana): l’uso delle armi, la disoccupazione, l’immigrazione, il razzismo, le centinaia di donne che spariscono a Juarez. E volevo assolutamente inserire personaggi storici tipo Billy The Kid o altri per niente famosi alle nostre latitudini come il nobile Carlo Camillo Di Rudio (nessuno ha avuto una vita avventurosa come la sua) o dell’imperatore degli Stati Uniti (in quanti sanno che gli U.S.A. hanno avuto un imperatore?). Non avevo altro modo che inventarmi una trama, un filo conduttore tra tutti questi argomenti: l’unica soluzione era il romanzo, pur conscio del fatto che qualche lettore avrebbe potuto rimanere spiazzato. Rimane principalmente un romanzo, la narrazione di un viaggio, non solo fisico ma anche dei vari protagonisti in sé stessi (Fotografo è al seguito di una band chiamata The Sidewalk Philosophers, in tour per promuovere il disco nuovo, e con loro c’è anche Summer, la manager), filosofo del chiaro di luna compreso, che si aggregherà alla compagnia in un secondo momento. I personaggi incontrati nel viaggio secondo me sono straordinari (li ho conosciuti) e i dialoghi dei membri della band sono divertenti, pungenti e sinceri, e servono spesso a stemperare la tensione nei momenti più vicini al saggio. Comunque, la storia d’amore (seppur molto particolare) non manca!»

Il testo è ricco di riferimenti musicali, letterari, cinematografici e persino turistici. Qual è stata la prima suggestione d’infanzia dell’America che l’ha spinta negli anni a visitarla? Magari, un film…

«Non un film, ma i film, tutti quelli del genere western che, famiglia al completo, si andava a vedere al cinema la domenica pomeriggio quando ero bambino. Un dollaro d’onore rimane il mio preferito e ho visitato più volte gli studios dove è stato girato, poco fuori Tucson, in una zona dove il saguaro la fa da padrone. Poi sono arrivati i fumetti, soprattutto Tex, insieme ai romanzi di Fenimore Cooper e altri, che già leggevo avidamente all’età di 6/7 anni. La musica è arrivata intorno ai 13 anni, complice un’estate in spiaggia ad ascoltare tutto quello che la musica rock poteva offrire negli anni Settanta. Poco alla volta i miei gusti si sono rivolti sempre più verso gli artisti americani, tralasciando così inglesi e italiani. La voglia di Stati Uniti era quindi enorme, ma continuavo a rimandare perché era enorme anche la paura di restare deluso. Paura fugata fin dal primo impatto. Però, quando mi sono deciso, avevo già ormai 31 anni… poi ho avuto modo di recuperare alla grande!»

Insieme al libro si può acquistare anche un disco che lo integra. Quanto i due prodotti si integrano e che difficoltà ha incontrato?

«Rock’n’Roll Shit. Il filosofo del chiaro di luna e Songs From Rock’n’Roll Shit si completano a vicenda. D’altra parte, anche in fatto di stesura da una frase del testo veniva l’idea per una canzone, e viceversa. Sono però in vendita separatamente, perché vivono tranquillamente di vita propria. E all’interno di essi si può dire la stessa cosa per molti capitoli e per molti dei brani. Le uniche difficoltà sono arrivate al momento di coordinare questo gran numero di musicisti, italiani e americani, per portare a termine le registrazioni. Ma è filato quasi tutto liscio, anche se ogni canzone ha i suoi aneddoti che andrebbero raccolti in qualche modo. All’inizio ho trovato in Ugo Cattabiani e Alessandro Casappa i collaboratori perfetti; io mi sono ritagliato un po’ di spazio con i testi, ma il lavoro grosso lo hanno svolto loro. Successivamente è arrivato Stiv Cantarelli e insieme abbiamo scelto gli interpreti e soprattutto come rivestire le canzoni che ancora non erano ben definite. Quasi tutti i musicisti contattati, con mio grande stupore (ma evidentemente nel corso di tanti anni passati nel mondo musicale mi sono costruito una credibilità) hanno risposto positivamente e hanno partecipato attivamente, non solo con la mera esecuzione, ma mettendoci l’anima. Sono così arrivati i Gang, Jono Manson, Graziano Romani, Ellen River, Bob Cheevers, Edward Abbiati, il Mauro Eufrosini di cui sopra, la leggenda parmense Andrea Montacchini e tutti gli altri. Quindi è filato tutto liscio e incredibilmente – i ritardi dei musicisti sono proverbiali – siamo riusciti a inviare il tutto a Chris Peet, in Galles per missaggio e mastering praticamente alla data stabilita mesi addietro. Solo due fatti tragici hanno funestato le registrazioni di Songs From Rock’n’Roll Shit: la morte di Mojo Nixon solo due settimane dopo che ci aveva mandato l’incisione del suo cameo e poi quella altrettanto dolorosa di Malcolm Holcombe, già malato da tempo, avvenuta proprio poco prima di potere registrare una canzone alla quale teneva moltissimo.»

Alle porte ci sono le elezioni presidenziali forse più controverse della storia. Che idea se n’è fatto?

«Quattro anni fa la maggior parte dei miei amici americani sognava Bernie Sanders, e io con loro. Rimarrà la curiosità di sapere cosa sarebbe successo con lui, sia sul suolo statunitense sia a livello internazionale. Purtroppo non credo che il megalomane Trump abbia le capacità e le intenzioni di unire il suo popolo (al di là delle dichiarazioni di facciata) e di migliorare le condizioni dei ceti più bassi, che pure lo votano. L’arrivo di Kamala Harris porterebbe una ventata di novità, si spera in positivo, e comunque pare avere ridestato le speranze dei democratici, dei democratici di tutto il mondo.»

Ai suoi occhi, cos’è dell’America che resta immarcescibile?

«Ci vado ogni qualvolta che ne ho la possibilità e ci tornerò fra qualche giorno. Le mie esperienze sono per lo più concentrate nel Southwest. I cambiamenti, rispetto ai miei primi viaggi a fine anni Novanta sono evidenti, sia nelle città sia nei piccoli centri sperduti nel nulla. Non ci si è ancora ripresi completamente dalla crisi economica di una quindicina di anni fa, ciononostante i prezzi dei beni di consumo aumentano (l’esempio più eclatante è quello della benzina) con relativa crescita di criminalità e addirittura di persone che non possono più permettersi un tetto sulla testa e “dormono nelle proprie scarpe”, per dirla alla Neil Young (credo che questo sia intuibile anche da chi dell’America conosce solo le varie Los Angeles, San Francisco, eccetera). Nonostante tutto questo, trovo immutato, almeno come viaggiatore curioso, l’estrema disponibilità nel dare una mano se ti vedono in difficoltà, e questo va a loro onore. Nel loro modo di essere “eterni bambini”, la loro bontà d’animo di fondo va riconosciuta. Con tutti i distinguo del caso, ovviamente. Un’altra cosa che non cambia nel tempo – e la dico scherzando, ma non troppo – è che puoi tranquillamente continuare a trovare ovunque 7-Eleven e Walmart!»

Se dovesse consigliare a un neofita un viaggio iniziatico negli USA, come gli direbbe di affrontarlo?

«Come primo viaggio capisco che possano ingolosire i parchi nazionali (effettivamente tutti bellissimi), New York, Las Vegas, Hollywood e Miami, ma spero che tali luoghi possano accendere una fiamma che induca a tornare per visitare i lati più nascosti del paese. La cosa più importante è la curiosità: mettere da parte quello che si crede di sapere, o anche quello che ci è stato raccontato e guardare tutto con occhi nuovi. Il mio primo viaggio, in solitaria nel 1997, l’ho fatto a cavallo del confine: da Los Angeles a Tijuana e Ensenada, poi verso est fino per rientrare a Nogales (città di confine che avrebbe meritato un capitolo nel romanzo o forse anche un romanzo tutto suo) e arrivare a Tucson, El Paso e Austin. Mi muovevo con i pullman di linea e non c’era ancora internet. In Messico, prendere un pullman significava aspettare anche tre o quattro ore: mai trovato uno puntuale. Ma questo ti dava la possibilità di parlare con la gente, immergerti nella vita di tutti i giorni di queste persone. E, una volta capito che non ero un “gringo”, mi accettavano come fossi uno di loro. Rimane il mio viaggio più bello, quello più avventuroso, per quanto l’avventura, quando fai viaggi di migliaia di chilometri, ti venga a cercare spesso! Io normalmente tralascio volentieri le grandi città e mi avventuro nelle zone tra una e l’altra. A volte sembra di essere davvero nel nulla, eppure alla fine del viaggio mi ritrovo ritemprato e scopro che in quel nulla in realtà c’è tantissimo. Come ho scritto nel romanzo, “lasci le scarpe vecchie in un luogo, il cuore in un altro, eppure quando alla fine torni a casa la valigia è molto più piena di quando sei partito”. E poi sono convinto che sia più facile capire la “vera” America: è più facile fare incontri che ti rimangono dentro (e non rischi di incontrare il tuo vicino di pianerottolo). Per esempio, i vari personaggi che Fotografo, Summer e The Sidewalk Philosophers incontrano lungo la strada, on the road, non me li sono inventati, li ho solo un po’ romanzati, e spesso ho dovuto “togliere”, perché se li avessi descritti come in realtà erano avrebbero rischiato di apparire addirittura troppo di fantasia!»

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