Sold out anche lunedì 5 agosto all’Aquileia Film Festival. Nell’anno del bicentenario del Museo Egizio di Torino, arriva sul palco Christian Greco, che del museo più antico al mondo ne è il lungimirante direttore. Lo intervista Piero Pruneti, direttore di Archeologia Viva. La serata inizia alle ore 21 con la proiezione del film evento “Uomini e Dei. Le meraviglie del Museo Egizio” (regia Michele Mally, Produzione: 3D Produzioni, Nexo Digital, Sky; Musiche: Remo Anzovino), che vede la partecipazione straordinaria di Jeremy Irons.
Abbiamo intervistato Matteo Moneta, co-autore del soggetto e sceneggiatore di “Uomini e Dei”. Moneta per Sky Arte HD ha realizzato numerosi documentari e reportage. Recentemente ha curato i documentari di due conterranei: Essere Giorgio Strehler e Sinceramente Gae dedicato a Gae Aulenti. Nell’organico di 3D Produzioni dal 2005, ha curato la serie “Storia della Prima Repubblica” per RAI3 con Paolo Mieli, ospite proprio venerdì scorso all’Aquileia Film Festival.
La prima domanda è dedicata alla narrazione. Il documentario ha visibilmente un intreccio a più linee.
«Ci sono più linee narrative, di diversa temperatura emotiva. Quella da cui siamo partiti racchiude il più importante nucleo di reperti presenti al museo: il corredo della tomba di Kha, – architetto delle tombe della Valle dei Re, funzionario importante –, e di sua moglie Merit, morta giovane. Uno dei fili della storia dunque è quello in cui si narra il viaggio di Kha nell’oltretomba, le prove che deve superare a partire dalla pesatura del cuore (una sorta di misurazione delle colpe commesse in vita), nella speranza di raggiungere i campi di Osiride e una vita senza tempo insieme agli dei. Poi c’è la storia di come è nato il museo torinese, il più antico del mondo dedicato a questa civiltà, che si intreccia con la nascita dell’egittologia fra Sette e Ottocento, e la campagna d’Egitto di Napoleone. Abbiamo seguito proprio in Egitto le tracce degli archeologi torinesi, nei luoghi più belli dove hanno scavato. Infine c’è uno sguardo piuttosto approfondito e, secondo me, piuttosto inedito, di alcuni aspetti religiosi legati, sia alla cosmogonia e ai grandi dei del pantheon egizio, sia agli aspetti spirituali e filosofici connessi con la sepoltura, la mummificazione, e la statuaria funebre. È un viaggio nella morte certo, ma pieno di vita».
Il ruolo del “cantastorie” Jeremy Irons l’ha scelto lei?
«L’idea è del regista Michele Mally, che voleva dare a Irons una funzione diversa da quella del divo nel ruolo di presentatore, e di cui ancora lo ringrazio. Era la terza volta che lavoravamo con lui. Questo ruolo mi ha permesso di aprire, dentro al flusso narrativo che ha la sua forte coesione necessaria a un documentario, degli spazi liberi di racconto orale vicini all’epica antica, o al teatro contemporaneo di narrazione, dove il potere di incantamento di Jeremy si è potuto esprimere al massimo. Irons è un attore serio, ha una maestria da grande interprete, propria alla scuola britannica».
Qual è il suo pezzo museale preferito?
«Il museo ha statue spettacolari. Io però mi sono più innamorato di piccoli oggetti, come ad esempio le statuine di panificatori che venivano poste nelle tombe: intere squadre, alte pochi centimetri, che macinano, impastano, cuociono il pane per nutrire il defunto nell’aldilà. Hanno dei grandi occhioni sgranati, che li rendono ancora più simpatici ma anche enigmatici».
Com’è stato lavorare con il direttore?
«Christian Greco è esattamente ciò che dice chiunque abbia avuto a che fare con lui: una persona eccezionale. Prima di tutto per la sua capacità di raccontare l’Egitto (la struttura del documentario nasce da una visita notturna al museo fatta con lui!) e poi per la gentilezza. È conosciuto e apprezzato in tutti i musei stranieri, ma non smette di comportarsi in modo semplice e disponibile. Nel film è la voce del museo e della sua storia. Vorrei però dire che tutto il gruppo di lavoro del museo, dai curatori alle persone dei diversi uffici, ha qualcosa di davvero speciale. C’è un bellissimo clima; mi è stato dato anche dal punto di vista scientifico tutto l’aiuto possibile. Un fatto raro in istituzioni di questa importanza».
E il “nostro” Remo Anzovino?
«È il quarto documentario per il cinema che faccio insieme a Remo, dopo quelli dedicati a Van Gogh, a Gauguin, e al rapporto di Napoleone con l’arte. È un musicista che sa emozionare, molto vario nelle sue sonorità. Ama parlare con registi e sceneggiatori, immergersi nello spirito del progetto. Qui ha saputo trovare dei motivi molto potenti, tra luce e buio, presenti in tutto il film».