D paradiso della revolución all’isola da dove el pueblo scappa con ogni mezzo. Questo è oggi la Cuba comunista, un Paese dove la dittatura da 65 anni è in guerra più che con il capitalismo, con la sua stremata popolazione che oggi è meno di quella che viveva nell’ex perla dei Caraibi nel 1969, dopo aver visto un picco e una ricaduta. Il saldo? Gli abitanti sono 8,62 milioni contro gli 8,71 milioni di 55 anni fa, con una drammatica decrescita del 18 per cento nel solo biennio 2022-2023. A rivelarlo un dettagliato studio statistico del rinomato economista e demografo cubano Juan Carlos Albizu-Campos Espiñeira. Questo professore presso le università dell’Avana e di Parigi Nanterre, in mancanza di dati ufficiali attendibili, ha calcolato l’effetto del massiccio esodo dal Paese dopo le proteste dell’11 luglio 2021, represse ferocemente dalla dittatura. La quale da allora non diffonde più statistiche ufficiali, quando aveva stimato che a Cuba vivevano 11,11 milioni di persone. Rispetto al dato attuale (quegli 8,62 milioni di abitanti), mancherebbero due milioni e mezzo di cubani.
Una «emorragia demografica» insomma. Per Albizu-Campos Espiñeira, «centinaia di migliaia di persone, con il sostegno finanziario di parenti all’estero, in particolare dagli Stati Uniti, si sono unite ai flussi incontenibili di migranti che cercano di sfuggire alla povertà o all’intolleranza politica». Uno choc per il regime, inchiodato dai numeri: 738.680 cubani sono infatti arrivati solo negli Stati Uniti tra ottobre 2021 ed aprile 2024, secondo le informazioni delle autorità statunitensi che aggregano visti, «parole» ed ingressi irregolari. Da questa cifra lo studioso ha estrapolato il numero totale di migranti, tenendo conto della percentuale di suoi connazionali che vanno negli Stati Uniti rispetto al totale di persone che lasciano l’Avana per qualsiasi destinazione. Il calcolo dà un numero per il periodo 2022-2023 pari a 1,79 milioni di persone, il triplo di quanti fuggirono nel 1980 con il celebre «esodo di Mariel», reso celebre in Italia dal film Scarface. Quella di oggi è insomma una cifra senza precedenti e ha portato a coniare l’espressione di «isola deserta». Senza contare che secondo sondaggi indipendenti l’80 per cento della popolazione ha come priorità «andarsene al più presto».
A questa fuga record si aggiunge un saldo di popolazione sempre più negativo, con il doppio di morti rispetto alle nascite. Basti pensare che, nel 2023, a Cuba sono stati registrati appena 90.300 neonati, la cifra più bassa degli ultimi sei decenni. Impressiona ancora di più la proiezione resa nota lo scorso 15 luglio dall’Onu, che stima che la popolazione dell’isola caraibica potrebbe scendere sotto i sei milioni di abitanti entro il 2100. Di questi 5,9 milioni di abitanti, quasi 2,5 milioni avrebbero più di 60 anni, con una media di 95 mila morti all’anno, più del doppio delle nascite, che scenderanno sotto le 40 mila unità. Meno di un sesto rispetto al picco di 260 mila neonati registrato tra il 1960 e il 1970, quando la speranza nell’«uomo nuovo» idealizzato da Che Guevara e Fidel Castro era al suo apice anche all’Avana.
In un articolo pubblicato sul Cuba Capacity Building Project della Columbia Law School di New York, Albizu-Campos Espiñeira e Sergio Diaz-Briquets (altro ricercatore cubano) stimano che «l’emorragia migratoria di Cuba non sembra avere una fine e continuerà per molto tempo, finché l’accordo del 1994 (firmato segretamente da Bill Clinton e Fidel Castro, ndr) rimarrà in vigore e molti degli immigrati più recenti si naturalizzeranno come cittadini americani usando il sistema di preferenze migratorie che dà priorità all’ammissione dei parenti più stretti». In un’intervista rilasciata all’agenzia Associated Press il 2 luglio scorso, un allarmato colonnello Mario Méndez Mayedo, capo della Direzione dell’identificazione, dell’immigrazione e degli stranieri del ministero dell’Interno cubano, ha dichiarato, con una stima al ribasso, che i concittadini residenti all’estero oggi sarebbero «circa tre milioni, tra nati sull’isola e loro discendenti». Questo esodo di massa si spiega con il mix di politiche economiche folli ma, soprattutto con «la mancanza di speranza dopo la repressione dell’11 luglio 2011» spiega a Panorama padre Alberto Reyes, parroco della città di Camagüey.
«La gente è molto scoraggiata perche c’è la sensazione che nulla cambierà mai se ogni volta che le persone osano dimostrare, come nel 2021, la repressione è brutale e la gente viene condannata a 10-20 anni di carcere solo per aver chiesto la libertà» testimonia questo prete coraggio che da tempo denuncia la situazione ormai insostenibile per la popolazione di Cuba dopo oltre 65 anni di dittatura comunista. Padre Alberto poi spiega in dettaglio cosa intende: «Siamo una società civile vulnerabile e indifesa, i processi sono sommari e non c’è avvocato difensore. Le persone hanno molta paura e non si sentono protette e, con la speranza al minimo, cerca due cose: un modo per sopravvivere giorno dopo giorno, o scappare». Certo la popolazione non è rassicurata dal fatto che, a inizio luglio, la dittatura abbia comunicato sui media di regime che oggi Cuba vive ufficialmente una «economia di guerra» e che presto sarà lanciato un «nuovo piano economico». Tutti i cubani sanno della carenza di cibo con cui hanno a che fare da anni, dei ridicoli stipendi dei funzionari pubblici (meno di dieci euro al cambio nero), dei prezzi alle stelle (l’inflazione reale è tra le più alte al mondo) e degli edifici che crollano su sé stessi per mancanza di manutenzione, seppellendo vittime innocenti.
Ma se alla crisi materiale i cubani sono abituati (lo scenario oggi è simile agli anni Novanta, dopo il crollo dell’Urss e prima che arrivassero gli aiuti del Venezuela di Hugo Chávez), ciò che «ci toglie la speranza è che ci sentiamo assolutamente dimenticati quando la comunità internazionale prende per buona la narrazione del governo del partito comunista al potere che presenta Cuba come un paradiso che non esiste. Ci scoraggiamo, perché ci sentiamo soli», aggiunge padre Alberto, sottolineando che l’Europa dovrebbe «cambiare narrazione, cioè iniziare a dire la verità. E dire la verità è molto facile perché basta che i giornalisti parlino con la gente comune, vadano nelle loro case, vedano come vivono». Basterebbe davvero poco perché i cubani si sentissero meno soli in questa ex perla dei Caraibi da cui, oggi, vogliono solo fuggire. Un’isola destinata a svuotarsi e al declino se non cambia il regime.