Se la scienza è un “bene pubblico globale”, i risultati delle ricerche scientifiche dovrebbero essere messi liberamente a disposizione di tutti coloro che li vogliono esaminare o utilizzare. I finanziatori pubblici hanno risorse sufficienti per realizzare questo obiettivo, spesso messo anche in evidenza, ma la realtà è un po’ diversa. Per due ragioni.
Sebbene molte riviste scientifiche mantengano standard elevati, troppe mancano di un adeguato controllo editoriale. Molte hanno un modesto livello di rigore e integrità. Alcune si impegnano in pratiche fraudolente. Poche osservano il più elementare dei requisiti scientifici essenziali: mostrare dati probatori in parallelo a quanto pubblicato, secondo il requisito che il mio maestro chiamava “riproducibilità”. E mancano norme condivise per governare il processo di diffusione del sapere.
In secondo luogo, i modelli di business degli editori commerciali si accaparrano la produzione scientifica rivendendola alle istituzioni dei lettori con livelli di redditività elevati, anche superiori al 30 o 40 percento. La barriera finanziaria penalizza lettori e autori assieme, in particolare quelli che vivono nei paesi a basso e medio reddito, dove il finanziamento pubblico della scienza è assai modesto. Tutto ciò frena la comunità scientifica e lo sviluppo del sapere.
I prezzi aumentano per due motivi. La maggior parte degli autori non paga per pubblicare, poiché pagano i finanziatori del progetto di ricerca. È un azzardo morale che evita il normale controllo dei prezzi da parte del cliente. E, guardando bene, un paradosso della università di mercato. In secondo battuta, l’editoria scientifica si è evoluta da quando, mezzo secolo fa, far stampare i propri lavori era il principale ostacolo che si poneva davanti ai ricercatori. Oggi quasi ogni articolo può trovare un editore. E la sfida non è più quella di essere pubblicati, ma è diventata un’altra: essere letti.
Di fatto, la comunità scientifica non ha voce in capitolo e accetta supinamente le politiche degli editori commerciali. Due fattori chiave determinano il comportamento individuale e istituzionale, incentivando prezzi elevati e mancanza di responsabilità. Il primo è senza dubbio il valore attribuito agli indici bibliometrici per valutare le prestazioni dei singoli. È la cultura del “pubblica o muori” che ha fatto proliferare in modo abnorme e incontrollato il numero delle pubblicazioni, gran parte delle quali nessuno legge anche se qualcuno le cita, spesso gli stessi autori per drogare la propria carriera. Il secondo è la valenza istituzionale degli indici bibliometrici, l’ossessione degli atenei per le classifiche, assecondata e spesso istigata da chi ha in mano le leve del potere, dai governi nazionali alla Commissione Europea.
Oltre agli errori metodologici, la classificazione tende a misurare qualcosa che invero non esiste, un ordinamento monodimensionale in termini di qualità di tutte le università del mondo. È straordinario che le università si siano piegate ad accettare il giudizio degli organismi commerciali per stabilire ciò che battezza una buona università. Questa scelta ha ristretto le prospettive accademiche, le ha indirizzate verso un unico modello commerciale, anziché aiutarle a sfruttare la diversità proposta dai diversi profili culturali.
Anni fa ho scritto che “non soltanto gli ingegneri o gli economisti o i fisici, ma perfino i filosofi sedotti dalla managerialità, subiscono l’attrazione fatale dei numeri, che promettono un giudizio neutrale, inconfutabile e inappellabile. Eppure sappiamo fin dai tempi di Fibonacci (1175-1235) che i numeri vanno presi con le molle, così come un secolo fa Gödel ci ha insegnato a diffidare dei modelli auto-referenziali: nessun sistema, che sia coerente e abbastanza espressivo da contenere l’aritmetica, può essere utilizzato per dimostrare la sua stessa coerenza” (vedi: Morte e resurrezione delle università, p. 28). Da allora, la bulimia numerica ha continuato a saccheggiare il sapere.
Dal 2016 al 2022 il numero delle pubblicazioni è cresciuto del 47 percento. Una maggiore produttività solo sulla carta (materiale e non). Non credo che magicamente gli scienziati siano improvvisamente diventati molto più creativi. La produttività di cartapesta è aumentata, ma quella scientifica è diminuita. Quante ore ha richiesto la scrittura di articoli inutili e ripetitivi, ore sottratte all’insegnamento, al lavoro transdisciplinare, al coinvolgimento pubblico e, soprattutto, all’approfondimento?
Nella prossima puntata parleremo del primo impatto dell’intelligenza artificiale, tra ragione e follia, serio e faceto, frode e ridicolo.
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