Il sistema dei collaboratori di giustizia è pericolosamente in bilico, come un castello di carte. E, per poche decine di migliaia di euro, si rischia di compromettere la lotta alla mafia di un intero Paese. Il Servizio centrale di protezione e il ministero dell’Interno sono al corrente del rischio ma, per ora, poco o nulla possono per impedire che una risacca burocratica travolga tutto. «Tra non molto i pentiti si pentiranno di essersi pentiti», riassume in maniera un po’ brutale un collaboratore di giustizia siciliano col nostro settimanale. Dopo essersi arresi allo Stato, gli ex malavitosi ora devono fare i conti con un nemico inatteso: l’Agenzia delle entrate che ha deciso di pignorare le loro «liquidazioni».
Il contratto che regola un rapporto di collaborazione con la giustizia si basa sull’impegno, da parte dello Stato, ad assicurare un riconoscimento mensile ai pentiti per consentire loro di mantenersi durante tutto il tempo in cui saranno a disposizione dell’autorità giudiziaria per deporre nei processi dove risultano testimoni o imputati. Periodo che, di solito, non va oltre un quinquennio. Solo di rado la collaborazione si allunga oltre tale termine, e generalmente accade nei casi «di soggetti di elevato spessore criminale» che non possono esaurire rapidamente la quantità di informazioni e notizie di reato di cui sono stati in possesso durante la loro delinquenza.
Ogni «stipendio» si aggira sui mille euro al mese, e a conclusione del percorso i pentiti possono chiedere la «capitalizzazione», ovvero una cifra una tantum che permette di trasferirsi a vivere in una località riservata per iniziare una nuova vita. Ebbene, tra le opzioni a disposizione dei pentiti c’è la possibilità di investire la «capitalizzazione» in una sorta di progetto di vita: l’acquisto di un piccolo negozio o di una casetta. «Quasi tutti i collaboratori optano per l’abitazione» spiega a Panorama una fonte del Servizio centrale di protezione, «perché se hai un tetto sulla testa hai già risolto gran parte dei tuoi problemi».
Ultimamente però l’Agenzia delle entrate ha deciso di confiscare i soldi del Servizio centrale destinati all’acquisto delle case prima che finiscano ai collaboratori. E questo accade perché, di solito, gli ex mafiosi hanno gigantesche esposizioni nei confronti dell’Amministrazione pubblica per spese di giustizia, multe, ammende e mantenimento in carcere. «I vecchi boss, che hanno deciso di pentirsi, arrivano ad accumulare milioni di euro di debiti» aggiunge un investigatore della Dia di Roma, «che risucchiano, come una idrovora, qualsiasi credito il collaboratore vanti con lo Stato».
La struttura guidata da Ernesto Maria Ruffini di fatto recupera ben poco considerato che la capitalizzazione media di un collaboratore si aggira sui 30-40 mila euro. Inutili per salvare l’Erario, ma tantissimo per la posta in gioco. «In questo modo, la collaborazione perde qualsiasi appeal “economico” perché nessun malavitoso deciderebbe di iniziare un percorso di cooperazione con la magistratura sapendo che, alla fine, si ritroverà senza nemmeno il letto». Peraltro, la nuova normativa prevede pure che la casa venga necessariamente intestata al collaboratore e non più a sua moglie, come quasi tutti hanno fatto in questi decenni. «Procure e uffici investigativi sono a conoscenza di questo problema ma non riescono a incidere perché servirebbe una deroga speciale che, a oggi, è quasi impossibile ottenere».
L’unica strada percorribile è quella della rateizzazione: il pentito paga i debiti e, mettendosi in regola, si tiene l’abitazione. Ma, se paga, i soldi finiscono e l’acquisto dell’immobile sfuma. Come se ne esce? «C’è un altro pericolo sottovalutato», dice un pentito campano, «che riguarda non già i futuri collaboratori, che saranno sempre di meno, ma quelli attuali: di fronte all’impossibilità di mantenere la propria famiglia, quanti ex criminali non torneranno sui loro passi?».
Il richiamo della foresta mafiosa per alcuni potrebbe essere irresistibile. «La macchina del pentitismo si è ingolfata» lamenta un collaboratore di giustizia napoletano. «Dopo le abbuffate degli anni passati, ora son rimaste le briciole. Bisognerebbe rivedere le procedure. I padrini preferiscono farsi la galera piuttosto che ridursi a pezzenti. E questa è una sconfitta per lo Stato». D’altronde i pentimenti falliti di Pasquale Scotti, ex super killer cutoliano della Nuova camorra organizzata, e di Francesco Schiavone, «Sandokan», il capo dei capi dei Casalesi, dimostrano che occorre sempre stare sul chi va là. Entrambi i boss hanno tentato la strada della collaborazione per mettersi gli ergastoli alle spalle e strappare un morso di libertà. Ma hanno raccontato troppo poco. I pm di Napoli se ne sono accorti e li hanno rispediti in galera, rinunciando pure all’«effetto pubblicità». Il tempo degli slogan è finito.