VIGEVANO. Erano finiti sotto accusa per caporalato, per avere impiegato in laboratori per la produzione delle scarpe operai cinesi costretti a lavorare anche fino a 15 ore, giorno e notte, senza giorno di riposo e con paghe da fame. Negli stessi laboratori gli operai dormivano anche.
Una situazione scoperta, alla fine del 2020, dalla Finanza, che aveva piazzato telecamere nei laboratori. A distanza di due anni l’inchiesta a carico di tre imprenditori cinesi, amministratori di fatto di quelle aziende, si è chiusa con un patteggiamento a un anno di pena.
Nessuno dei quindici operai che erano stati indicati dalla procura come parte offesa (l’indagine era stata coordinata dalla magistrata Camilla Repetto) si è costituito parte civile per la richiesta dei danni.
Due anni fa gli arresti
Il procedimento si è concluso alcuni giorni fa davanti al giudice Luigi Riganti. Con il patteggiamento, che non presuppone una assunzione di responsabilità, gli imprenditori chiudono il loro conto con la giustizia, anche se l’inchiesta ha avuto strascichi amministrativi e i titolari delle società hanno dovuto mettersi in regola sanando gli illeciti.
L’accusa di caporalato, cioè il reclutamento illegale e lo sfruttamento di manodopera, aveva portato a tre ordinanze di custodia cautelare: i tre imprenditori di origine cinese, amministratori di tre diverse società tra Vigevano e Lomellina attive nel settore della produzione di calzature, erano finiti sotto inchiesta per le condizioni con cui costringevano operai, sempre di origine cinese, a lavorare. Operai che si erano trasferiti apposta in Lomellina e che si erano adattati a paghe basse e turni massacranti pur di poter lavorare.
L’impulso all’inchiesta non è arrivato dalle loro dichiarazioni (sentiti nel corso delle indagini hanno detto che non avevano alternativa e che avevano accettato quelle condizioni con rassegnazione, perché non c’era scelta) ma dalle telecamere piazzate dai finanzieri nei laboratori dove gli operai lavoravano e alloggiavano.
I filmati
Dai filmati era emerso che i lavoratori erano costretti a lavorare e vivere negli stessi spazi, in condizioni igienico-sanitarie non adeguate, senza riscaldamento né letti adeguati. I dipendenti, secondo l’accusa, ricevevano compensi irrisori, e comunque molto al di sotto della soglia fissata dai contratti collettivi nazionali di categoria.
Inoltre, non venivano pagati in base alle ore lavorative prestate, ma in funzione dei pezzi prodotti, che venivano annotati in appositi registri. Gli imprenditori facevano leva, secondo la ricostruzione dell’accusa, anche sulla scarsa conoscenza della lingua italiana e il perdurante stato di bisogno dei dipendenti permetteva agli indagati di contare sulla loro omertà, motivata dalle ulteriori scarse alternative di lavoro».
L’uso dei prestanome
Gli indagati non comparivano mai come effettivi amministratori delle ditte. Per aggirare i controlli, secondo l’accusa, le ditte agivano attraverso prestanome. Le aziende, inoltre, cambiavano spesso denominazione, ragione sociale, partita Iva e titolare, inserendo spesso soggetti irreperibili. Durante i controlli dei vari enti preposti alle verifiche, gli indagati si presentavano come collaboratori, referenti dei titolari o in alcuni casi fingevano di essere normali impiegati che non comprendevano la lingua italiana. Dopo i controlli, comunque, all’interno degli opifici non cambiava nulla e gli operai andavano avanti a lavorare alle stesse condizioni.