Ottant’anni fa, all’inizio dell’estate del 1944, la crescita delle forze partigiane in Friuli era impetuosa: i bandi di arruolamento della Repubblica di Salò andavano pressoché deserti e le fila delle organizzazioni militari di insurrezione si ingrossavano.
Lo sbarco degli alleati in Normandia e la liberazione di Roma agli inizi di giugno confermarono la sensazione che la fine del nazifascismo, o quantomeno la sua sconfitta in Italia, fosse solo questione di mesi.
Come reagirono i comandi tedeschi, che di fatto controllavano assieme alla milizia repubblichina, il Friuli e la Zona di Operazioni Alto Adriatico? Lo strumento fu quello che stava dando frutti nella resistenza all’avanzata degli alleati lungo la Penisola: il coinvolgimento dei civili nella guerra.
Il 16 maggio 1944 venne messa a fuoco Forni di Sotto, che contava allora 500 stabili e 1500 abitanti.
Come ha raccontato più volte Erminio Polo, lo storico di quegli eventi, l’incendio fu la rappresaglia per un attacco a un grosso reparto della scuola di formazione della contraerea Luftwaffe di stanza a Spilimbergo in pattugliamento, compiuto quella stessa mattina.
A tre chilometri dal paese l’agguato alla colonna tedesca condotto da un’unità partigiana fruttò una decina di vittime e la quasi immediata, feroce, ritorsione sull’intero paese.
Ma è a fine luglio che i nazifascisti affondano il colpo. Nuovamente con l’incendio di paesi: Bordano viene data alle fiamme il 21 luglio, dopo che tre militi tedeschi scesi a valle per fare spese dalla base tedesca di monte San Simeone erano stati incrociati e uccisi dai partigiani.
Lo stesso giorno, una contro-banda composta da SS e da militi fascisti (24 tedeschi e 4-5 italiani appartenenti all’SS Larstwehn-Btl agli ordini di un maresciallo), travestiti da partigiani della Garibaldi, prima uccisero 6 persone alle malghe di Lanza e Codin, quindi il proprietario e tutti i lavoranti della Malga Promosio (16 persone), proseguendo lungo la valle. Il bilancio, mai stabilito con precisione, di vari giorni di violenze parla di una cinquantina di civili uccisi.
Non è sempre possibile trovare, per ognuno di questi episodi, l’avvenimento al quale riferirli: in Carnia, così come altrove, agli inizi dell’estate 1944 la situazione era ormai di guerra aperta tra le bande partigiane, il cui numero infondeva loro una sicurezza e una temerarietà fino ad allora sconosciute, da una parte, e l’esercito tedesco, le milizie italiane e i cosacchi ormai stabilitisi nel distretto, dall’altra.
I lanci degli alleati, gli assalti e gli attentati avevano messo nelle mani delle formazioni combattenti una certa disponibilità di armi e di munizionamento e questo le incentivava, e spingeva anche i singoli che si trovavano faccia a faccia con il nemico, ad affrontare lo scontro diretto.
A dare, insomma, compimento all’invito rivolto «a tutti i patrioti» da parte del generale Alexander, comandante in capo delle forze armate in Italia: «Uccidete i tedeschi, distruggete i loro materiali».
Dall’altra parte, la risposta spietata fu l’uso pianificato del terrore per separare la popolazione dai ribelli: la “guerra ai civili” costò 10 mila morti, in Italia, nei venti mesi di occupazione nazifascista.
Di tale strategia è stata formalizzata una tassonomia, per cui gli incendi di Bordano e Forni sarebbero state rappresaglie a seguito di atti di guerra compiuti dai partigiani (come, in seguito, l’incendio di Nimis).
La strage, o meglio i diversi episodi della valle del But, sarebbero invece stati atti terroristici a scopo preventivo, in aree a forte presenza partigiana; nonostante le dicerie che si diffusero in seguito a proposito di possibili vendette di misfatti partigiani.
In tutte queste vallate, le violenze di fine luglio 1944 non fermarono l’esplosione numerica delle formazioni osovane e garibaldine. Nelle settimane successive un’area di 2500 km2, con una quarantina di comuni e circa 90 mila abitanti (prima della guerra) fu sottratta al controllo dei tedeschi e della RSI, dando corpo alla più grande Zona Libera della guerra civile.
Ma il nodo complesso e doloroso delle violenze di guerra avrebbe continuato, dopo il 1945, ad incidere la memoria della Resistenza. Quando tornò la pace, spesso nei paesi ebbe spesso la meglio la condanna delle azioni fatte dai partigiani, perché foriere di rappresaglie: la Resistenza si sarebbe dovuta limitare ad attentati contro le cose, aspettando il dono della libertà portato dagli alleati, senza i quali, nessuno lo mette in dubbio, la guerra non sarebbe stata vinta.
A ottant’anni da quelle tragedie vale dunque la pena di riflettere ancora su questo: limitandosi semplicemente ad attendere, affrontando i tedeschi con punture di spillo, con quale dignità futura quella guerra sarebbe stata vinta?
Per usare una parola tornata molto in auge, con quale idea di Patria?
